Nella New York di Spider-Man si diventa supercattivi per un niente. Ti manca un braccio? Soffri di insicurezza cronica? L’esito è sempre quello: voglia matta di distruggere il mondo. Un tantino esagerato, ma tant’è. Ironia a parte, questa è la spia di un problema più ampio, che affligge sia The Amazing Spider-Man 2 sia il precedente The Amazing Spider-Man. Prima di argomentare devo però riavvolgere la tela.
A gennaio del 2010 Columbia Pictures e Marvel Studios annunciano che Spider-Man 4 non vedrà mai la luce. Al suo posto ci sarà un reboot della serie, con regista e cast diversi. Quando esce The Amazing Spider-Man (2012) diventa chiaro il cambio di rotta rispetto al lavoro svolto da Sam Raimi, autore della precedente trilogia di Spider-Man: la nuova serie rinuncia infatti alla psicologia come motore narrativo principale, accantona quasi tutta l’ironia e si affida totalmente a un’incalzante struttura action.
The Amazing Spider-Man 2 conferma l’impianto nonostante la sostituzione di tutti gli sceneggiatori (a parte il soggettista James Vanderbilt). Insieme, conferma anche i difetti narrativi. Mi spiego. Uno degli elementi che fa funzionare una storia, qualunque storia, è il conflitto. Il protagonista deve avere un obiettivo, e la necessità di superare gli ostacoli che lo separano da questo obiettivo determina la ragione delle sue azioni. Uno degli ostacoli più fertili, dal punto di vista narrativo, è rappresentato dall’antagonista.
Quest’ultimo funziona bene quando le sue ragioni si oppongono a quelle del protagonista. Succede ad esempio con Voldemort e Harry Potter (amore come debolezza vs. amore come forza), e anche nel caso dell’HYDRA e di Capitan America (controllo vs. libertà). Succedeva anche con il dottor Octopus e l’Uomo Ragno, in Spider-Man 2, anche se qui si lavorava su un livello più tangenziale: la follia di Octopus rappresentava infatti ciò che poteva colpire Peter Parker qualora avesse fallito nel tentativo di proteggere i suoi cari. Non a caso, dunque, la questione centrale non era stenderlo a cazzotti bensì farlo tornare in sé.
Ora: in The Amazing Spider-Man 2 Peter Parker ha due obiettivi, salvaguardare l’amata e scoprire la verità dietro la scomparsa dei suoi genitori, ma in entrambi i casi i supercattivi non si pongono come antagonisti degni di nota. Dal punto di vista narrativo hanno la consistenza di un muro da superare, solo un po’ più alto e battagliero. È veramente esile il motivo per cui Electro decide di combattere Spider-Man, a tal punto da farti dubitare che abbia l’intelligenza che gli viene attribuita. Il Green Goblin è solo un tantino meglio confezionato, mentre Rhino funziona perché è una specie di pazzo psicopatico, un tipo psicologico che per definizione non necessita di ragioni particolari per far casino – i “pazzi” sono una risorsa vitale per gli sceneggiatori svogliati, pur avendo potenzialità formidabili (vedi ad esempio Non è un paese per vecchi).
Il risultato di questa impostazione è che la sceneggiatura si sviluppa in modo confusionario, annacquando gli snodi narrativi legati alle ragioni di Peter Parker e in ultima analisi depotenziandone gli esiti. Se come spettatore non vieni travolto dall’accumulo narrativo, presto finisci col trovarti di fronte a una sceneggiatura fiacca e noiosetta – lo dico ora, per evitare fraintendimenti: l’attenzione sul conflitto non conduce necessariamente a sbocchi seriosi, come testimoniano il formidabile Crank e il James Bond pre reboot, entrambi campioni dell’abbandono della psicologia come motore narrativo principale.
Ciò che tiene a galla The Amazing Spider-Man 2 è il regista Marc Webb, che mi pare proponga un’interessante approccio alla rappresentazione di un fumetto su grande schermo. Ci sono momenti, soprattutto nelle battaglie contro i supercattivi, in cui il ralenty viene spinto fino quasi al fermo immagine. Webb ne approfitta per confezionare inquadrature strapiene di elementi che sarebbero difficili da apprezzare a velocità normale. Qualcosa di simile accade nei fumetti, di fronte a vignette che ti spingono a rallentare il ritmo della lettura per goderti lo spettacolo visivo. Quello di Marc Webb non è dunque un ralenty usato semplicemente per aumentare il tasso di figaggine della scena, soluzione facile e abusata. È qualcosa di più complesso e consapevole, che avrebbe meritato uno sforzo maggiore da parte degli sceneggiatori.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 22/04/2014)