Il mito della fuga è un sempreverde del cinema italiano e non solo, ma è raro che alla fuga si accompagni anche il ritorno a casa, la riconquista delle proprie radici grazie alla consapevolezza maturata. Il mondo fino in fondo conferma questo assioma, perché l’irrequietezza dei protagonisti non sembra potersi placare: nonostante i viaggi, i ghiacciai all’altro capo del mondo, le esperienze vissute e i grumi esistenziali finalmente sciolti, nonostante tutto questo sembra non esserci una casa cui tornare. È un po’ come se Alessandro Lunardelli, esordiente alla sceneggiatura e dietro la cinepresa, non sapesse come chiudere certi nodi in modo verosimile e dunque abbia preferito lasciarli in sospeso.
Non si tratta di un difetto. È anzi la spia della capacità di tirare i remi in barca di fronte al rischio di essere disonesti con il proprio pubblico. A maggior ragione considerando la “bulimia da esordiente” che caratterizza Il mondo fino in fondo, con la sua voglia di inseguire mille rivoli narrativi, anche a rischio qualche forzatura. Se però queste ultime ci sono, i protagonisti non sono mai traditi nella loro essenza ed è su questo aspetto che si misura l’onestà del racconto. Inoltre, a conti fatti il mito la fuga è imparentato con il road movie: lo scopo ultimo è la scoperta/accettazione di sé, non quel che succede dopo.
Detto questo vale la pena di aprire una piccola parentesi sul nordest d’Italia. Il nostro cinema lo sta frequentando parecchio, ultimamente. Non tanto come entità geografica specifica, quanto come stato d’animo, emblema di un disagio soffocante e come tale metro di paragone per misurare un altrove percepito come migliore e risolutore. Dico questo perché non è obbligatorio che il mito della fuga prenda le mosse da una situazione negativa: si può benissimo partire per il valore del viaggio in sé – vedi ad esempio Marrakech Express di Gabriele Salvatores. È dunque interessante, per contro, che ultimamente il Nordest sia spesso l’anticamera dell’inferno, un posto in cui scavare una tana di resistenza (ll capitale umano), dove rischiare di perdersi (Piccola patria) o dal quale fuggire (Il mondo fino in fondo).
Torniamo però al film di Lunardelli, che avrebbe potuto essere migliore se la “bulimia da esordiente” non ci avesse allontanato troppo dal rapporto tra i fratelli Loris e Davide. A furia di inserire sottotrame e suggestioni narrative, la sceneggiatura (scritta da Lunardelli insieme a Vanessa Picciarelli) perde il suo centro propulsore e così la seconda parte della pellicola manca un po’ di mordente, perché delle molte questioni aperte non si capisce più bene quali siano quelle veramente importanti.
Con qualche aggiustamento la sceneggiatura avrebbe potuto mantenersi sempre al livello del lungo prologo, dove riuscite ellissi temporali e tocchi sapienti tratteggiano molto bene il contesto e i personaggi, complice anche la mano felice di Lunardelli dietro la cinepresa. Il suo tocco delicato e preciso è l’aspetto migliore di Il mondo fino in fondo. Viene voglia di vederlo misurarsi con un secondo lungometraggio, ed è un buon segno.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 29/04/2014)