Ritratti di donne con barca alla deriva

A un certo punto del film Quello che so di lei, la cinepresa si sofferma su una barca a remi: non è un’inquadratura insistita, ma non è nemmeno così poco significativa da passare completamente inosservata. La barca in questione è ormeggiata a un pontile affacciato su un fiume ed è per metà piena d’acqua. Qualche tempo dopo la rivediamo, solo che ora è libera dall’ormeggio e, mentre affonda lentamente, viene trascinata via dalla corrente. Prima, quando era a riva, rimandava a un personaggio del film, un po’ scalcagnato e sulla via del tramonto; ora racconta il commiato di quel medesimo personaggio, un commiato dalla vita e dalle persone che su quel pontile talvolta si affacciavano.

È un piccolo dettaglio di regia, per nulla insistito e gestito con grande sapienza, ma non è questo a colpire maggiormente, quanto piuttosto il fatto di essere inserito all’interno di una pellicola che ambisce esplicitamente a intrufolarsi nella vita il più docilmente possibile, per poi guardarla dal di dentro e assistere a quel che succede. In un film di questo tipo, le barche utilizzate come simbolo rischiano sempre di imporre uno scarto: non più un autore che si mimetizza all’interno della storia, bensì uno che mette in mostra il proprio ragionamento su di essa. Il sessantenne Martin Provost, francese, regista e sceneggiatore di Quello che so di lei, riesce invece a concedersi i simboli (la barca non è l’unico) senza farsi trascinare lontano dall’impostazione che si è dato: è un raggiungimento complesso da ottenere.

La storia è quella di Claire (interpretata da Catherine Frot), donna coscienziosa, che ha cresciuto da sola il proprio figlio e che di lavoro fa l’ostetrica presso un reparto maternità a rischio di chiusura. Un giorno viene contattata dalla vecchia amante di suo padre, colei che a conti fatti ha mandato in frantumi la sua famiglia: si chiama Béatrice (Catherine Deneuve), è gravemente malata e chiede aiuto proprio a lei. E così, giocoforza, ecco l’incontro fra due personalità agli antipodi: una donna responsabile e altruista fino quasi alla negazione si sé e una donna che addenta l’esistenza con una foga che sfiora l’egoismo. E mentre la prima, complice un camionista contadino (Olivier Gourmet), «si affaccia bruscamente al bordo della vita, l’altra viene spinta dalla malattia verso il precipizio» – la frase è di Frédéric Strauss, che ha recensito il film per conto del magazine culturale francese Télérama.

A proposito del camionista: per certi versi, il suo personaggio è l’alter ego del regista Martin Provost: non tanto per questioni sentimentali, ma per come si avvicina a Claire, con cautela e rispetto, rapido a tirarsi da parte se diventa troppo invadente, ma sempre pronto a rischiare l’invadenza pur di guardare da vicino. Del resto, il ruolo di un regista/narratore è anche quello di essere presente nel momento in cui i personaggi reclamano il proprio spazio: come farlo è la vera sfida, ed è ancora più complessa quando l’intenzione è di portare su schermo qualcosa che assomigli alla vita.

Proprio questo ha scontentato Owen Gleiberman, critico cinematografico di Variety: parlando della protagonista Claire ha scritto che «il suo caparbio autocontrollo è la sua qualità più ammirevole, ma insieme la più noiosa. Lei è un bell’essere umano, ma non è un bel personaggio cinematografico». Il giudizio di Gleiberman mi pare troppo severo, ma evidenzia il tasto dolente di questo film, come di ogni altro che ambisca a restare aggrappato alla verità della vita: che è straordinariamente significativa per chi la vive, non necessariamente per chi la guarda.

Mi pare che Martin Provost riesca a non cadere in fallo perché sa far emergere la fragilità e la fugacità delle cose (anche della barca simbolo di cui sopra) e di conseguenza l’importanza di restare umani nonostante tutto. Proprio per questo Claire resiste alla chiusura del reparto maternità in cui lavora: perché l’alternativa è un ospedale guidato da un’idea efficientista e disumanizzata, dove la vita può tranquillamente mancare. E infatti quei corridoi sono completamente vuoti, nell’unica scena ad essi dedicata: ulteriore simbolo di un film che nella gestione di questi scarti ha la sua qualità più evidente.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 2 giugno 2017.]