Come diventare supereroi in dieci giorni

Non è un bel film, Power Rangers, e si può liquidare abbastanza velocemente. Però consente di fare un discorso più generale sulla rappresentazione degli eroi, super o meno che siano. Procediamo con ordine e torniamo indietro nel tempo fino al 1984, quando il produttore israeliano/statunitense Haim Saban si reca in Giappone per lavoro e scopre lo show televisivo Super Sentai. Assicuratisi i diritti per il mercato extra asiatico, Saban finanzia la versione statunitense, intitolata Mighty Morphin Power Rangers (1993-1995), che diventa enormemente popolare e avvia un fortunato franchise. «È stata una delle prime serie multietniche sui supereroi», racconta con orgoglio, «e una delle prime in cui anche le ragazze hanno i superpoteri».

Il film Power Rangers, appena uscito nelle sale, mette effettivamente in scena protagoniste e protagonisti di differenti etnie e questo resta un elemento da non sottovalutare, se pensiamo al fatto che il target di riferimento è rappresentato da un pubblico molto giovane. Non è più nulla di significativo come poteva esserlo a metà degli anni Novanta, ma resta pur sempre una rappresentazione inclusiva che non fa male.

Pensando ai più giovani, è anche interessante constatare che uno dei messaggi di fondo è riassumibile con le parole “va bene se non sei perfetto”. La storia è infatti quella di cinque adolescenti che trovano per caso altrettanti artefatti colorati: scoprono che questi oggetti consentono loro di trasformarsi in guerrieri dotati di abilità soprannaturali e incaricati di proteggere il pianeta Terra da una minaccia antica e potente, guarda caso risvegliatasi da poco. Gli adolescenti in questione sono degli eletti loro malgrado, nel senso che ognuno ha le proprie debolezze e paure, ognuno è in gamba ma non in modo eclatante; c’è chi è incompreso dai genitori, chi è strambo e chi sembra del tutto insignificante agli occhi dei compagni di scuola. Ovviamente, hanno tutti un buon cuore e la capacità di fare gruppo: caratteristiche che si rivelano determinanti.

Ridotto all’osso, il messaggio di Power Rangers è: caro spettatore, non è un problema se ti senti incompreso e non sei un modello di perfezione, perché dentro di te hai la capacità di fare grandi cose. Tipo salvare il mondo. Un discorso così strutturato ha però un’altra faccia della medaglia, riassumibile in questo modo: non è poi così importante impegnarsi a fondo per imparare a fare qualcosa, perché se sei l’eletto (decisione presa a tua insaputa e a prescindere dai meriti) allora ti verranno forniti mezzi soverchianti per farti valere. E basteranno dieci giorni, tanti ne concede Power Rangers, per imparare a combattere, trovare la pace interiore, comprendere il significato profondo di amicizia e sacrificio. Senza trascurare gli studi, va da sé, o smettere di prendersi cura della mamma malata.

Siccome l’evoluzione dei personaggi procede a spintoni, la faccia cattiva della medaglia rischia di emergere con più forza rispetto a quella buona. Per quanto mi riguarda, ma per età sono lontano dal pubblico giovane, è successo proprio questo. Ad esempio, mi è venuto in mente Independence Day – Rigenerazione (2016), nel quale era il meno valido fra tutti i piloti a rappresentare l’ago della bilancia nella battaglia contro gli alieni.

Esiste un modo per limitare i danni o addirittura far emergere solo la faccia positiva della medaglia: affidarsi a sceneggiatori capaci. Setacciando nella memoria, viene in mente che anche le Wachowski hanno affrontato il problema di far imparare velocemente all’eroe una serie di abilità: il film era Matrix (1999) e la soluzione funzionava alla grande perché strutturale all’universo narrativo evocato. Altro esempio: quando all’inizio degli anni Sessanta Stan Lee contribuisce a reinventare il genere supereroistico a fumetti, adotta la formula “supereroi con superproblemi” e così facendo pone le basi per dare spessore ai propri personaggi.

I protagonisti di Power Rangers acquisiscono le loro abilità solamente perché l’ingresso in scena della cattivissima Rita Repulsa non può essere procrastinato a lungo. E i loro problemi, per quanto ambiscano a essere seri, sono raccontati all’acqua di rose. È qui che si sente maggiormente l’assenza di capaci sceneggiatori, figure professionali spesso sottovalutate e a torto.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola l’8 aprile 2017.]