L’amore ai tempi del segregazionismo

I film tratti da storie vere sono complessi da maneggiare: da un lato c’è il desiderio legittimo di rispettare la verità dei fatti, dall’altro la necessità altrettanto legittima di ricordare che stiamo pur sempre parlando di un’opera di finzione, che ha proprie regole di funzionamento e che non può limitarsi a essere la versione per immagini di una pagina di Wikipedia. È un discorso ancora più complesso se la storia che ispira la pellicola ha una forte valenza politica e sociale, come nel caso di Loving.

Parliamo di una vicenda che comincia il 2 giugno 1958, quando Richard Perry Loving sposa Mildred Delores Jeter. La cerimonia si tiene a Washington, capitale degli Stati Uniti, ma la coppia vive a Caroline County, in Virginia, dove le nozze interrazziali sono proibite dalla legge. Lui è bianco, lei è nera: vengono arrestati e condannati ad abbandonare lo Stato e a non ritornarvi insieme o contemporaneamente per un periodo di 25 anni. Significa allontanarsi dalle rispettive famiglie, dagli amici, dai luoghi che considerano casa loro. In assenza di alternative, si trasferiscono a Washington.

Nel 1963, sull’onda dei movimenti per i diritti civili, Mildred Loving scrive a Robert F. Kennedy, che in quel momento è procuratore generale degli Stati Uniti: questi passa il caso all’American Civil Liberties Union, che mobilita i propri avvocati e organizza un complesso ricorso presso la Corte Suprema. Il 12 giugno 1967 la Corte emette una sentenza unanime che dichiara incostituzionali tutte le leggi contro le unioni interrazziali, in quel momento ancora vigenti in sedici Stati del Sud.

Una storia vera dalle forti implicazioni politiche e sociali, insomma, perché la condizione degli afroamericani resta problematica negli Stati Uniti, ma anche perché molti hanno visto in questa vicenda un possibile collegamento con i matrimoni omosessuali: è accaduto per esempio durante il Festival di Cannes 2016, dove Loving è stato presentato in concorso ricevendo un’accoglienza lusinghiera.

Di fronte a un materiale narrativo così scottante, il regista e sceneggiatore Jeff Nichols (Take Shelter, Mud) ha subito intuito che la chiave di volta era concentrarsi sui Loving, sui loro sentimenti e sulla quotidianità della loro relazione. In questo modo ha evitato che il dibattito politico si mangiasse la pellicola, spingesse il pubblico a schierarsi in base alle proprie convinzioni e battagliasse a suon di teoria con chi la pensa diversamente.

«Penso che sia una perdita di tempo», ha detto Nichols a Cannes. «Ciò che la gente dimentica, quando si infervora in questo tipo di dibattiti, sono le persone al centro di questi dibattiti». Loving resta, e non poteva essere diversamente, un resoconto fedele dei fatti. Ma è prima di tutto una storia d’amore. Forse non è un caso se rimangono impressi nella memoria degli spettatori i momenti minuti, i piccoli gesti d’affetto, lo stupore di un uomo semplice che non capisce perché gli venga consigliato di divorziare dalla donna che ama. E l’altrettanto genuina sorpresa di una donna di fronte all’interessamento da parte di Robert Kennedy e dell’American Civil Liberties Union.

Quando Jeff Nichols è andato a casa della figlia dei Loving, Peggy, per farle leggere la sceneggiatura, la donna a un certo punto ha pianto e ha detto «sono tutti morti». Non ha detto che i neri sono ancora discriminati, né ha espresso indignazione di fronte al fatto che lo Stato dell’Alabama, ultimo fra quelli segregazionisti, ha accolto solamente nel 2000 la sentenza della Corte Suprema eliminando il divieto di nozze interrazziali.

È ovvio che c’è anche questo, dentro Loving; ma qui, innanzitutto, Peggy ha ritrovato i propri genitori. In un’intervista concessa a Life nel 1966 papà Loving dichiara: «Non lo stiamo facendo perché è giusto farlo e vogliamo essere quelli che fanno la differenza. Lo stiamo facendo per noi stessi».

Jeff Nichols ha scritto e diretto il suo film per loro, non perché era giusto raccontare la storia, per quanto edificante essa sia. In questo modo ha evitato di essere didascalico, di parlare attraverso prese di posizione astratte che dimenticano «le persone al centro di questi dibattiti».

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 18 marzo 2017.]