Prova a metterti nei panni di un produttore cinematografico: un aspetto del tuo lavoro è incontrare gli sceneggiatori, ascoltare le loro idee per un film e decidere se ti interessano oppure no. Un giorno entra nel tuo ufficio Eric Heisserer, statunitense classe 1970, con pochissima esperienza alle spalle: inizia a raccontarti di misteriose astronavi aliene che arrivano sulla Terra, e fin qui lo ascolti con interesse. Poi salta fuori che gran parte della storia ruota attorno a complessi concetti di linguistica e ha per protagonista una docente incaricata di comunicare con gli alieni. Se di fronte a questa rivelazione lo cacci, allora ti sei comportato come molti altri produttori cinematografici e in fondo hai avuto ottime ragioni per farlo: Arrival mette infatti in scena la cosiddetta ipotesi di Sapir-Whorf, una teoria della linguistica in base alla quale lo sviluppo cognitivo delle persone è influenzato dalla lingua che parlano.
Nella sua accezione più estrema, quella adottata dal film, l’ipotesi di Sapir-Whorf afferma che il modo di esprimersi determina il modo di pensare: pochissimi avrebbero scommesso che uno spunto narrativo di questo tipo avrebbe prodotto una delle migliori pellicole di fantascienza degli ultimi anni, capace di appassionare e intrattenere il pubblico incassando più del triplo del budget investito. Il bello è che la trama resta fedele al ragionamento più che all’azione: quando dodici astronavi arrivano in altrettanti luoghi della Terra, una linguista e un fisico teorico sono incaricati di comunicare con gli alieni. Ma come è possibile dialogare con qualcosa di totalmente diverso dall’uomo? E quanto è forte il rischio di fraintendere e cedere alla tentazione dell’attacco preventivo?
Eric Heisserer sa bene che è stato molto difficile realizzare Arrival: il film per molti versi rappresenta il coronamento di un suo atto d’amore nei confronti della letteratura di fantascienza; una passione che affonda le radici negli anni in cui da piccolo, quando faticava a prendere sonno, mamma Heisserer gli leggeva i libri di Robert Heinlein, Ray Bradbury e Isaac Asimov. La lunga marcia di Arrival comincia quando Eric inciampa in Storia della tua vita, racconto di Ted Chiang pubblicato nel 1998: è amore a prima lettura ed Eric decide di provare a trarne una sceneggiatura. Dalla sua ha la passione per la fantascienza e la convinzione che possa veicolare concetti profondi. A suo svantaggio c’è che il racconto è poco cinematografico e che lui non ha alcuna carta da giocarsi con i produttori.
E infatti, porte in faccia. Paradossalmente, quando poi inizia a lavorare a Hollywood, si specializza in film horror, ad esempio scrivendo i remake di Nightmare e La cosa oppure lavorando su soggetti originali (Final Destination 5). Titoli fiacchi, che pagano le bollette, ma non spianano la strada ai finanziamenti per un film sull’ipotesi di Sapir-Whorf. Ed ecco entrare in scena i produttori Dan Cohen e Dan Levine: siamo nel 2010 e stavolta la porta non si chiude in faccia. Al di là della lungimiranza dei due Dan, bisogna dire che poco prima avevano incontrato il regista canadese Denis Villeneuve, fresco dell’accoglienza entusiasta per il suo La donna che canta (2010): il regista gli aveva confidato di voler realizzare un film di fantascienza e, avendogli fatto leggere il racconto di Chiang, sapevano che la storia gli era piaciuta moltissimo.
Insomma, quando Eric arriva con la sua sceneggiatura, hanno buone ragioni per non scoraggiarsi di fronte alla linguistica. Anzi, spediscono lo script a Villeneuve, che accetta di incontrare Heisserer: i due si piacciono e, nonostante Villeneuve sia impegnato su quello che diventerà Prisoners (2013), inizia un lungo lavoro a quattro mani sulle revisioni dello script. Impossibile sapere quali modifiche siano state apportate, ma dalle dichiarazioni di entrambi emerge che le due principali qualità di Arrival erano già presenti nella sceneggiatura originale di Eric Heisserer. La prima, va da sé, è la capacità di rendere comprensibili per il vasto pubblico concetti tutt’altro che banali e di farlo senza sacrificare l’intrattenimento. La seconda qualità, forse ancora più importante, è non aver fatto un lavoro tutto di testa, ma aver trovato il modo di infilarci il cuore. Perché Arrival è soprattutto la storia struggente di una madre: proprio questo fatto potrebbe spingerci a rivedere il film una seconda volta, nonostante siano già noti tutti i colpi di scena. Non è una conquista di poco conto.
[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 21 gennaio 2017.]