Un film dialoga sempre con il periodo storico in cui viene prodotto. Può farlo in modo consapevole oppure no, ma inevitabilmente produrrà negli spettatori reazioni che almeno in parte non dipendono dalle sue qualità intrinseche. The Founder ne è un esempio eclatante: racconta la storia vera di Ray Kroc, che negli Stati Uniti del 1952 fa il commesso viaggiatore e che di conseguenza macina migliaia di chilometri con la sua automobile e conosce quasi tutti i fast food del Paese. Un giorno finisce a San Bernardino, in California, dove i fratelli Mac e Dick McDonald gestiscono il miglior chiosco di hamburger che abbia mai visto. A colpirlo non è soltanto la qualità del cibo, ma soprattutto la velocità con la quale viene servito. I McDonald hanno infatti applicato alla cucina logiche da catena di montaggio industriale e Kroc intuisce che in questo sta la chiave del successo: non tanto dare ai clienti ciò che vogliono, ma darglielo subito.
Coinvolge allora Mac e Dick in un visionario progetto di franchising e trasforma McDonald in un marchio presente in tutto il mondo. Mentre fa tutto questo, sottrae ai fratelli il controllo della loro creatura e li esclude da qualunque beneficio economico. Alonso Duralde, critico cinematografico di TheWrap, ha scritto: «È insieme il momento storico migliore e quello peggiore per realizzare un film biografico su un uomo d’affari narcisista e senza scrupoli, che si prende quello che vuole, scarica la moglie, ruba le idee degli altri e minaccia i propri nemici di seppellirli a suon di procedimenti giudiziari dai costi insostenibili».
Per quanto la parabola di Donald Trump colpisca soprattutto l’immaginario degli spettatori statunitensi, è innegabile che abbia un suo peso anche in Italia: questa è una delle due grandi influenze che il contesto storico esercita sulla visione di The Founder. L’altra riguarda la progressiva affermazione di un modo diverso di intendere il cibo, con una crescente attenzione per i prodotti a chilometro zero e il ritorno all’artigianalità. Se questo film fosse uscito negli anni Ottanta, forse lo avremmo guardato in modo diverso: oggi non è solo la storia di un successo personale, ma anche quella di un’idea di ristorazione che si pone agli antipodi rispetto a un’altra idea di ristorazione. Emerge da qui, non da ciò che vediamo sul grande schermo, un possibile sguardo critico sull’intera vicenda narrata.
Ad agevolare questa seconda influenza del contesto storico c’è il fatto che The Founder si mantiene ambiguo: non è una satira del capitalismo americano, ma nemmeno una sua esaltazione. Allo stesso modo, racconta Ray Kroc con toni eccessivamente equidistanti tanto dalla glorificazione come dalla condanna. Per certi versi, è difficile non muovere una critica allo sceneggiatore Robert D. Siegel (The Wrestler) e al regista John Lee Hancock (Saving Mr. Banks): un conto è restituire la complessità di un uomo e di una vicenda, ben altro discorso è non prendere alcuna posizione in merito; il che non significa inseguire il film a tesi, ma dotarsi di fondamenta narrative che la reticenza non fornisce. Tuttavia, se le influenze del contesto storico possono talvolta nuocere a un film, in questo caso gli fanno bene: non perché eliminano la reticenza, ma perché forniscono punti di vista fertili.
Con gli occhi di oggi, risuonano in modo particolare le parole di Ray Kroc, che a una domanda della prima moglie («Quando sarà abbastanza?») risponde: «Onestamente, forse mai», verbalizzando una bulimia di affermazione che non ha altro scopo se non il nutrire se stessa. Stesso discorso per la posizione dei fratelli McDonald, che puntano al controllo della qualità e non al guadagno come unico scopo. È interessante notare, inoltre, che Kroc non insegue esplicitamente un calo della qualità in favore di un incremento del guadagno: il fatto è che non sa riconoscere la qualità e di conseguenza non gli sembra di tradire i consumatori. Quest’ultima osservazione, più delle altre, è praticamente inesistente all’interno di The Founder: è figlia del modo in cui io, come spettatore, entro in sala portandomi necessariamente dietro il mondo in cui vivo, nel quale l’educazione al buon bere e al buon mangiare è diffusa. Sarà curioso rivedere questo film tra vent’anni per verificare come il mondo è cambiato.
[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 14 gennaio 2017.]