Jim Jarmusch, ovvero come annoiarsi al cinema

È lunedì mattina e un uomo di nome Paterson si sveglia nel letto di casa sua, saluta affettuosamente la moglie ancora intontita dal sonno e si alza per iniziare la giornata: lavora come autista di autobus per le strade della cittadina di Paterson, in New Jersey. La sera rincasa, cena, esce a far sgranchire le zampe al cane, si ferma al pub del quartiere a bere una birra, torna a casa per coricarsi. Martedì mattina la routine riprende, sempre uguale. Quando comincia la giornata di mercoledì inizio a temere che mi annoierò a morte mentre su grande schermo scorrerà la storia del signor Paterson, protagonista dell’omonimo film del regista e sceneggiatore Jim Jarmusch (dal 22 dicembre nelle sale di Roma e Milano, dal 29 in tutta Italia). Effettivamente sì, mi sono annoiato a morte. Solo che più o meno all’altezza di giovedì – Paterson copre una settimana di vita – è successo qualcosa di inaspettato: alcune piccolezze hanno acquistato un risalto sorprendente.

Nulla di corposo, dal punto di vista narrativo, dettagli come potrebbero essercene molti altri e che però emergono con una forza insospettabile: ad esempio le gambe di due bambine che dondolano dai sedili di un bus, oppure il modo in cui il sole penetra tra i palazzi cittadini. «Paterson è una storia tranquilla i cui personaggi principali non vivono conflitti tangibili o drammatici», ha dichiarato Jim Jarmusch: «Vuole rendere omaggio a ciò che di poetico esiste nei piccoli dettagli, nelle variazioni e nelle interazioni quotidiane, e si pone come antidoto al cinema cupo, drammatico o incentrato sull’azione». Se valutiamo la riuscita di un film dalla corrispondenza tra le intenzioni dell’autore e il risultato cui assistiamo noi spettatori, allora Paterson è decisamente riuscito. Anzi, il suo apice lo raggiunge quando un ulteriore elemento di poco conto si carica di notevole tensione drammatica proprio perché abbiamo imparato a osservare con occhi diversi cose che all’inizio del film nemmeno vedevamo.

Aggiungo due elementi, per completare il quadro: nei ritagli di tempo, il protagonista di Paterson scrive componimenti poetici ispirandosi alla lezione del poeta William Carlos Williams: originario del New Jersey, cantore delle cose semplici e autore di Paterson, poema epico in cinque volumi, pubblicati dal 1946 al 1958, che raccontano le persone e l’essenza della città di Paterson. Secondo elemento importante: i versi del protagonista del film non li ha scritti Jarmusch, bensì il poeta Ron Padgett (nato a Tulsa, Oklahoma, nel 1942).

Uno di questi recita: «Quando sei un bambino impari che ci sono tre dimensioni / Altezza, larghezza e profondità / come una scatola da scarpe / Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione / Il tempo / Hmm / Poi alcuni dicono che forse ce ne sono / cinque, sei, sette… / Stacco dal lavoro / Mi faccio una birra al bar / Guardo il bicchiere e mi sento contento». Ancora poesia delle piccole cose quotidiane, dunque.Non sono sicuro che sia necessario un «antidoto al cinema cupo, drammatico o incentrato sull’azione», come dice Jarmusch. Ma certamente Paterson si pone agli antipodi.

Lo fa con coerenza e correndo qualche rischio, primo fra tutti quello di risultare soporifero. Del resto, perché le piccole cose quotidiane iniziassero a risplendere, era necessario che il racconto di giorni sempre uguali seguisse uno stile minimalista e antispettacolare. Era necessario assistere al risveglio del lunedì e poi del martedì e del mercoledì perché, ad esempio, notassimo l’esattezza dell’orologio biologico del protagonista, che sgarra al massimo di cinque minuti. Dunque sì, mi sono annoiato terribilmente e insieme riconosco il valore di Paterson, soprattutto nell’abilità con la quale intreccia i riferimenti culturali e le scelte narrative e formali. Va detto però che Jim Jarmusch ha realizzato film decisamente migliori, come ad esempio il precedente Solo gli amanti sopravvivono: non meno strutturato e coerente, non meno colto e dall’andamento pacato, però con molto più cuore. Non è obbligatorio che una complessa struttura intellettuale debba per forza essere algida. Può anche fare uno scarto ulteriore e diventare calda, fare respirare la poesia e non limitarsi a dirla.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 23 dicembre 2016.]