La scena è questa: siamo nel corso della cerimonia di chiusura del Festival di Cannes 2016 e Xavier Dolan sale sul palco per ritirare il Grand Prix appena assegnatogli per il film È solo la fine del mondo: i critici che assistono dalla sala stampa accolgono la notizia con freddezza, qualcuno protesta alzando la voce. Dolan non può sentirli, ma sa bene di aver ricevuto le peggiori recensioni in carriera. La sua è un’opera troppo verbosa, dicono i detrattori, troppo ingessata. Un’opera con la quale «ha trovato il mondo di esasperare e logorare il suo pubblico» (Variety), «una delusione, anche per i suoi più fedeli sostenitori» (Hollywood Reporter). Perché questa diversità di opinioni fra la giuria del festival e alcune delle pubblicazioni più autorevoli del panorama cinematografico?
Il nocciolo della questione ruota intorno all’ormai proverbiale esuberanza del regista e sceneggiatore canadese, quella stessa che a 19 anni, grazie al film d’esordio J’ai tué ma mère, lo trasforma di colpo in uno degli autori più amati dalla critica. I quattro film successivi confermano talento e gradimento, fino al trionfo di Mommy (2014), che tra l’altro propizia una distribuzione italiana mai avvenuta in precedenza. Così, quelli di noi che non frequentano i festival scoprono perché in tanti si spellano le mani dagli applausi: Xavier Dolan è effettivamente eccessivo, talvolta quasi presuntuoso, ma allo stesso tempo riempie ogni suo film di vitalità e idee visive. È un cinema imperfetto, certo, perché a furia di spingere qualche sbavatura arriva, ma è generoso, originale, vibrante. E la critica lo adora.
Poi ecco il suo sesto lungometraggio, È solo la fine del mondo, che prende questa vitalità e la imbriglia. C’è una ragione molto seria per farlo: la sceneggiatura adatta l’omonimo testo teatrale di Jean Luc Lagarce (1990), un’opera eccezionale per la lingua che usa, con personaggi che sbagliano le parole, interrompono e riprendono le frasi, ripetono concetti. È una lingua che dev’essere assolutamente mantenuta, perché figlia diretta di ciò che racconta: la storia è infatti quella di uno scrittore che torna a casa dopo 12 anni di assenza per dire alla madre, alla sorella e al fratello che sta per morire. Però si parla di tutto parlando in realtà di niente: nessuno ha la capacità di dire ciò che conta davvero, di andare a fondo delle cose e delle relazioni.
Talvolta alcuni moti dell’animo sono così poco chiari che i personaggi non sanno verbalizzarli; il più delle volte sarebbe possibile farlo, ma c’è troppa paura, troppo non detto, troppa ruggine, nonostante l’affetto e le buone intenzioni. Per questo la lingua di Jean Luc Lagarce è quella che è; e per questo Xavier Dolan doveva preservarla. Ne viene fuori una sceneggiatura che conserva un impianto quasi teatrale, nel senso che si percepiscono chiaramente i cambi di scena e che assistiamo a interi dialoghi racchiusi all’interno di luoghi ben definiti: una stanza, la veranda, il soggiorno e via così. Xavier Dolan non ha dunque la medesima libertà di movimento dei film precedenti, non può saltare da un posto all’altro, raccordare situazioni lontane, giocare con le ellissi temporali.
Però lavora la regia con intelligenza e talento: trasforma l’incapacità di comunicare in impossibilità di abitare i medesimi spazi, isolando i personaggi all’interno di inquadrature non condivise, o quando le condividono facendo in modo che uno solo di loro sia a fuoco. Inoltre, la musica spesso sovrasta frasi ormai inutili, nel senso che noi spettatori abbiamo capito quel che dovevamo e allora lasciamo i personaggi a scannarsi da soli. Credo che Variety e l’Hollywood Reporter siano in errore. Il fatto che Xavier Dolan incateni la propria esuberanza non è un difetto: è il modo (l’unico?) che aveva per sottolineare la profonda, umanissima sofferenza di chi non riesce a fare la cosa giusta, nonostante le intenzioni, nonostante la necessità. Anche questo è un cinema vivo e potente, pur se meno pirotecnico.
[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 10 dicembre 2016.]