La vicenda è nota: nel giugno 2013 l’esperto informatico Edward Snowden consegnò a giornalisti del Guardian documenti secretati che dimostravano la vastità delle operazioni di sorveglianza elettronica condotte dall’agenzia statunitense per la sicurezza nazionale (NSA). Ora, poco più di tre anni dopo, l’uscita del film Snowden difficilmente riaprirà il dibattito sul confine tra privacy e sicurezza, nonostante resti una questione tutt’altro che marginale. La ragione è che è didascalico, noiosetto e fatica ad appassionare. Non che la posizione del regista e sceneggiatore Oliver Stone sia sfumata, anzi: fa dire al suo protagonista che «il terrorismo è una scusa» e che il vero scopo dei software di sorveglianza globale è di mettere in atto «un controllo economico e sociale per proteggere la supremazia del governo». Il problema è che questa frase cade un po’ dall’alto, quasi a giustificare la necessità della pellicola, senza però che quest’ultima riesca a darle forza.
C’è stato un momento in cui Oliver Stone era indeciso se raccontare una storia con un personaggio di finzione oppure restare fedele ai fatti realmente accaduti: tutto dipendeva dall’eventuale collaborazione di Snowden, fondamentale per avere uno sguardo approfondito in particolare sulla storia d’amore con la compagna Lindsay Mills. Solo così Oliver Stone avrebbe avuto per le mani qualcosa che non fosse già stato raccontato dal documentario Citizenfour, uscito nel 2014 e premiato con l’Oscar. A girarlo è stata Laura Poitras, presente all’incontro segreto con i giornalisti del Guardian nel giugno 2013 e dunque capace di raccontare tutto quello che c’era da dire sulle ragioni etiche che hanno spinto Snowden a parlare. Ciò che mancava e che poteva essere indagato da un film di finzione, erano le cose alle quali aveva rinunciato per arrivare lì – in quel momento non sapeva che Lindsay l’avrebbe raggiunto in Russia, dove attualmente risiede godendo di un asilo temporaneo.
Ecco dunque le due principali direttrici del film Snowden: da un lato il racconto della carriera lavorativa e di come le informazioni segrete vennero trafugate e consegnate ai giornalisti; dall’altro la storia dell’incontro con Lindsay, dell’innamoramento e di come la relazione ha risentito del travaglio etico di Edward. Con un escamotage di sceneggiatura, tutto questo viene narrato attraverso una serie di flashback: dal punto di vista narrativo l’intenzione è di dare ritmo alla trama ed effettivamente per la prima parte del film l’obiettivo è raggiunto.
Poi però l’escamotage mostra la corda, perché Oliver Stone non riesce a raccontare una storia d’amore coinvolgente, né a farci capire quanto fosse speciale e di conseguenza quanto fosse dolorosa la scelta di metterla a rischio per un bene superiore. Non solo: la ricostruzione del dilemma etico di Snowden è lineare, per niente problematica, figlia di un autore che è chiaramente d’accordo con il proprio protagonista ma che si scorda che un minimo di conflitto è vitale, in termini narrativi, e che le ragioni non sono indebolite ma rafforzate da argomentazioni contrarie con un minimo di consistenza.
Insomma, la frase che «il terrorismo è una scusa» risuona in una stanza vuota e perde la potenza necessaria a rilanciare il dibattito privacy/sicurezza. Che, di suo, si scontra con due ostacoli non da poco: primo, l’imposizione di alcuni limiti alla raccolta dei dati elettronici grazie all’approvazione del Freedom Act (2 giugno 2015), un passo avanti che non cancella il problema; secondo, il fatto che le persone ne sottovalutano l’importanza: secondo un sondaggio condotto a marzo del 2015 dal Pew Research Center, il 46% degli statunitensi si definisce poco o per nulla preoccupato della cosa.
Forse Oliver Stone ci avrebbe guadagnato se Edward Snowden avesse preferito non collaborare con lui, perché l’alternativa, cioè girare la storia di un personaggio di finzione, l’avrebbe svincolato dal rispetto per i fatti veri, che è sacrosanto ma ha ingabbiato la narrazione. Snowden potrebbe però avere un affetto collaterale, minore ma comunque importante: dare slancio alla campagna con la quale Amnesty International chiede al presidente degli Stati Uniti Barack Obama di concedere la grazia ad Edward Snowden prima della fine del suo mandato.
[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 26 novembre 2016.]