Malick e il suo gelido cavaliere di coppe

Denso, stratificato, con un andamento lento e spiazzante, Knight of Cups può legittimamente affascinare il proprio pubblico e altrettanto legittimamente lo può indispettire. Io sono fra quelli insoddisfatti a causa di una costruzione formale e narrativa tutta di testa e poco di pancia e di una ridondanza che pecca di autoindulgenza – non di arroganza, altrimenti il giudizio sarebbe molto più negativo. Ma al di là dei gusti personali, bisogna riconoscere a Terrence Malick di aver costruito un discorso formale onesto e coerente – che tiene insieme citazioni dagli apocrifi Atti di Tommaso, dall’allegoria cristiana Il pellegrinaggio del cristiano (John Bunyan , 1678) e da un testo del filosofo e mistico persiano Sohrevardi – sorretto da una struttura a capitoli identificata da specifiche carte dei tarocchi; un lavoro che procede per immagini ricorrenti, mancanza di corrispondenza fra audio e video e per segni filmici che puntano verso la metafora.

Un menù per stomaci forti imbastito per raccontare la storia di Rick, alter ego di Malick stesso, sceneggiatore hollywoodiano di successo al quale il padre raccontava in gioventù la storia di un principe: egli intraprendeva un viaggio alla ricerca di una perla, ma a un certo punto beveva da una coppa, si dimenticava chi era e cosa stava cercando e cadeva in un sonno profondo. Allo stesso modo, Rick ha vissuto in un sogno fatto di belle ville e belle donne, ma si è smarrito: si lascia vivere dalle cose che accadono, facendosi spettatore della propria esistenza perché «da giovane avevo paura, paura della vita».

Ne fanno le spese le donne nelle quali inciampa ed è interessante notare come Malick racconta questi incontri: gli attori si muovono spesso per linee rette, la cinepresa e il montaggio enfatizzano non un corteggiamento morbido e sinuoso, magari addirittura fatto di lenti avvicinamenti circolari: quasi casualmente le linee rette si intersecano e così i personaggi vanno letteralmente a sbattere l’uno contro l’altro. Ne nascono relazioni sempre uguali, che ripetono gesti e situazioni (ad esempio le passeggiate sul bagnasciuga), ma che spesso sono sovrapponibili proprio perché Rick si comporta da spettatore, dunque non sa instillare qualcosa di significativo in ciò che gli accade. E se qualcosa di significativo arriva comunque, ciò avviene suo malgrado.

Il messaggio è dunque chiaro, la perla che il principe Rick deve trovare è la capacità di vivere. E fra i numerosi elementi formali del film, vale la pena di isolarne uno, cioè la ricorrenza dell’acqua, soprattutto quella oceanica, che diventa simbolo dell’incapacità di Rick di mollare gli ormeggi e prendere il largo, di tuffarsi nella vita perché troppo impaurito per farlo. Ma davvero basterebbe tuffarsi? A un certo punto Malick piazza la cinepresa sul fondo di una piscina colma e riprende un cane che si getta per prendere in bocca un suo giocattolo, senza riuscirci. La scena si ripete più volte, con giocattoli diversi: tutte le volte il cane deve desistere e tornare in superficie. Come se Terrence Malick aggiungesse un ulteriore elemento alla crisi esistenziale del suo personaggio: la sfiducia profonda nell’efficacia della cura evocata.

È qui che Knight of Cups scarta e smette di essere semplicemente una versione cinematografica del manuale di self help (che pure è), dal quale estrarre morali edificanti (che pure ci sono): Malick si sofferma sul momento della crisi, su quanto può essere disarmante e su quanta disperazione può portare con sé. Ed è proprio qui che il film si inceppa, perché prova a essere compassionevole ma si perde in una costruzione formale e narrativa troppo stratificata. Questo atteggiamento porta Malick a realizzare un film che per certi versi resta distante dalle emozioni esattamente come il suo protagonista resta ai margini della vita. C’è chiaramente una coerenza, in tutto ciò, ma in questa coerenza c’è anche il germe della freddezza da me provata.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 12 novembre 2016.]