Synecdoche, New York

Ci sono voluti 6 anni, ma alla fine Synecdoche, New York (2008) esce anche nelle sale italiane e nonostante l’attesa resta la curiosità per l’esordio alla regia di Charlie Kaufman. In fondo stiamo parlando di uno dei pochissimi sceneggiatori che riconosci al volo: Essere John Malkovich è quasi più suo che del regista Spike Jonze, e lo stesso vale per Se mi lasci ti cancello, che porta con maggiore evidenzia il marchio di fabbrica di Kaufman piuttosto che quello di Michel Gondry — che pure non è uno qualunque.

La domanda, dunque, è facile: il buon Charlie è altrettanto incisivo dietro la cinepresa? In linea di massima no, perché il peso da novanta continua a essere lo script, ma alla fine della visione resto comunque combattuto: ipotesi uno, ho assistito a un trattato sull’impossibilità dell’arte di raccontare la vita, e per certi versi sull’impossibilità della vita di essere pura e sincera; ipotesi due, ho assistito a 120 minuti di spocchiosa masturbazione mentale.

La storia è quella di Philip Seymour Hoffman, un regista teatrale ipocondriaco e decisamente complicato, che prevede 560 cambi di luce nei suoi allestimenti perché oscilla tra perfezionismo e ossessione. Un giorno decide di mettere in scena uno spettacolo puro e sincero: lavorando all’interno di un gigantesco capannone costruisce una replica della sua vita, cercando un senso, una traccia di verità. Dal punto di vista visivo e narrativo, l’alternanza tra vita e ricostruzione della vita prosegue fino a un’inquadratura in particolare, quella dell’appartamento abitato da Michelle Williams: lo vedi, pensi di guardare la vita vera e pochi secondi dopo scopri che stai assistendo alla sua ricostruzione. È un momento obiettivamente notevole, che porta Synecdoche, New York al nucleo pulsante del discorso di Charlie Kaufman.

Da qui in avanti la confusione tra i piani investe tutti gli ambienti e i personaggi ed emerge l’impossibilità per Philip Seymour Hoffman di realizzare il desiderio di uno spettacolo puro e sincero. Il teatro, così come il cinema (ma a questo punto l’arte tutta) risulta troppo artificiale, troppo evidentemente ricostruito per essere vero e vitale: è irrimediabilmente finto e dunque già morto prima ancora di trovare una messa in scena definitiva — che poi, la questione dell’essere già morti investe anche altri livelli narrativi, perché si sa che Kaufman ha un gusto particolare per questo tipo di intrecci. Del resto, Synecdoche, New York inizia dicendo che l’autunno è l’inizio della fine. Che è un po’ come invitare gli spettatori a fondersi il cervello inseguendo tutti i rimandi e i giochi intellettuali del film.

Non finisce qui, perché la vita stessa si rivela artificiale, lontana dalla purezza e dalla sincerità. Non è forse vero che ognuno di noi costruisce una rappresentazione di sé e degli altri? E da questo punto di vista, non ha forse ragione il personaggio di Catherine Keener a dire che tutti ti deludono, se hai il tempo di conoscerli abbastanza? Le risposte di Charlie Kaufman sono all’insegna del pessimismo.

Ora: tutto questo discorso, che è solo uno dei ragionamenti possibili su questo film, ci riporta all’inizio, alla questione dell’ipotesi 1 o 2. Data per acquisita la precisione e la raffinatezza artigianale dell’intreccio, che non sono in discussione, propendo per liquidare Synecdoche, New York come una lunga, troppo lunga masturbazione mentale. Perché ciò che domina è il vezzo della trovata sorprendente, è un intellettualismo compiaciuto e pure spocchiosetto, considerati un paio di spiegoni posizionati nei punti chiave (ce n’è uno sull’essere morti e sulla confusione del tempo che questo comporta, tanto per ritornare a un paio di paragrafi fa). D’accordo, potremmo sostenere che la celebrazione dolente dell’artificiosità di vita e arte non può che essere artificiosa a sua volta. Ma potremmo davvero? Non concederemmo troppo credito all’auctoritas di Charlie Kaufman?

[Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 23 giugno 2014.]