Jersey Boys, Clint Eastwood è meglio di così

Ho una mia teoria su Clint Eastwood regista: dategli una storia originale e ne farà un grandissimo film, fatelo lavorare su una storia vera e saranno dolori. Pellicole a sostegno della prima affermazione: Million Dollar Baby e Gran Torino; esempi di cose molto meno riuscite: Flags of Our Fathers e J. Edgar. La sua ultima fatica, Jersey Boys, conferma questa ipotesi: la pulizia e la precisione della regia sono quelle, perché Eastwood è pur sempre Eastwood, ma il risultato complessivo è deludente.

La questione centrale riguarda proprio lo stile messo in campo con la cinepresa, quell’andamento denso e pacato, quel lavoro di sottrazione antispettacolare che risulta perfetto nel racconto dei dettagli, delle piccole cose quotidiane, perché riesce a dare loro un respiro ampio e profondo. Se invece Eastwood sceglie sceneggiature tratte da storie vere, tende a preferire quelle che coprono decenni di vita, che abbracciano una quantità di eventi significativi e proprio questo lo allontana dalle minuzie che sa rendere grandi. Curiosamente, quando lavora su queste ultime riesce a riverberare più significati di quanti ne comunichi alle prese con i fatti della storia con la S maiuscola – il che per certi versi è paradossale, considerato il portato esemplare della Storia.

Prendiamo allora la vicenda dei Four Seasons, quartetto pop che partendo dai sobborghi del New Jersey conquista fama planetaria a metà degli anni Sessanta. La loro parabola potrebbe prestarsi a un ragionamento sulla capacità della musica di cambiare le sorti di giovani altrimenti destinati a una vita da delinquenti: tre su quattro orbitano attorno alla mafia locale. E sicuramente offre il fianco alla constatazione che il successo economico non aiuta a sconfiggere i propri demoni personali.

Tra le righe c’è anche questo, ma Jersey Boys sembra molto più un vezzo nostalgico, un omaggio a un certo genere musicale. Come tale può intrigare gli spettatori in qualche modo sedotti da quel sound e forse anche gli amanti dei musical (il film è l’adattamento dell’omonimo spettacolo di Broadway). Ma ha poco da dire a tutti gli altri.

Guardiamo per contro un altro film recente, A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen. Anche in questo caso si narrano fatti realmente accaduti, ma il respiro della pellicola è più universale ed evocativo. Forse anche perché lo sguardo abbraccia un periodo di tempo limitato, si concentra su alcuni elementi senza voler documentare tutti i momenti salienti di una biografia.

Curiosamente, allora, è interessante notare che Jersey Boys tocca alcuni dei suoi momenti migliori quando salta a piè pari settimane, mesi o anni. Succede ad esempio col passaggio repentino dal sesso al matrimonio, oppure con l’entrata in scena delle scarpe numero 44, della questione di Liberace o della canzone Walk Like a Man. Imprimendo un’accelerazione alla storia, il montaggio rivela anche il limite di un racconto che vuole documentare tutto, troppo.

Resta però un dato di fondo: a 84 anni suonati Clint Eastwood ha ancora voglia di mettersi alla prova su terreni relativamente nuovi, per lui. Ad esempio il musical ma soprattutto i toni da commedia, che sono forse l’aspetto migliore di Jersey Boys. Ci sono giovani registi, in giro, adagiati da tempo su una formula sicura e neanche tanto valida, mentre Eastwood, che conosce bene l’eccellenza, non si tira indietro quando si tratta di esplorare nuove strade. È per questo che avrei voluto cantare lodi sperticate in onore di Jersey Boys, invece non posso, ci sono troppi nei.

[Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 17 giugno 2014.]