La qualità del lavoro di Bryan Singer sugli X-Men ha determinato le scelte estetiche di coloro che dopo di lui hanno preso in mano un film mutante (l’esordio del franchise è del 2000, Singer ha diretto il primo e il secondo capitolo e torna ora per la terza volta dietro la cinepresa). Non stupisce dunque che X-Men – Giorni di un futuro passato abbia un’atmosfera, un taglio fotografico e un tipo di montaggio che sono diventati veri e propri marchi di fabbrica. E per fortuna questi elementi sono stati declinati in modo accorto, regalandoci un prodotto che è anni luce lontano dallo scialbo X-Men: The Last Stand (Brett Ratner, 2006). Dietro il successo di Singer si celano però un rischio scongiurato e un possibile problema per il futuro.
Il rischio stava tutto nella fonte che ha ispirato la sceneggiatura di Simon Kinberg: il fumetto di Chris Claremont e John Byrne ha una narrazione vasta e ambiziosa, mescola piani temporali, gestisce numerosi personaggi e in più di un momento sottolinea le problematiche legate al cambiamento della linea temporale. L’adattamento cinematografico, necessariamente più compatto in termini narrativi, poteva risultare confusionario o superficiale. Kinberg invece si comporta bene e la pellicola scorre senza intoppi.
Peccato solo per l’abbandono di buona parte dei crucci sulla modifica del passato. Non lo dico perché disdegno il “tradimento” delle fonti, ma perché ho la sensazione che questo elemento narrativo avrebbe potuto dare una marcia in più al film, aumentando il tasso di serietà della vicenda – quella serietà introspettiva che non ha mai sfigurato nel franchise.
Provo a spiegarmi. Un film sugli X-Men tende a essere una narrazione collettiva, un affresco dove conta più il contesto che i singoli personaggi. I mutanti, tutti insieme, propongono allo spettatore una metafora sulla diversità e l’evoluzione. E se alcuni emergono dal gruppo, lo fanno senza cambiare l’assunto di base. Altri supereroi, al di fuori di questo universo narrativo, possono metaforizzare ognuno cose differenti (vedi Batman o Superman o i singoli Vendicatori), ma non i mutanti.
Qui sta forse la ragione per la quale Giorni di un futuro passato è bello in modo costante, senza picchi: data per scontata la riuscita del piano di modifica del passato (nessuno ne dubiterebbe), l’affresco di gruppo fatica a consegnarci dinamiche interpersonali che possano aumentare la tensione narrativa al momento opportuno. Anche il fumetto di Claremont e Byrne trascurava questo aspetto, ma bilanciava la questione mettendo sotto i riflettori i dubbi e le sofferenze intime dei mutanti. Il tono generale era più scuro e drammatico, e anche più coinvolgente. Guardando il film di Singer, invece, mi sono ritrovato ad apprezzare l’abilità nel disegnare l’affresco, ma anche a essere sostanzialmente poco incuriosito e trascinato dai singoli personaggi.
E qui sta un potenziale problema per il futuro. I protagonisti storici della serie cinematografica sono ormai cristallizzati, offrono ridottissimi margini di cambiamento. E il cambiamento, con i conflitti che porta, è vitale per lo sviluppo della trama. Dal canto loro, le new entry non incidono in modo significativo: non solo devono giustamente allinearsi al gioco metaforico su diversità ed evoluzione: stentano pure a ritagliarsi uno spazio sotto il sole. Dunque offrono anche loro piccoli spazi di narrazione: capita che ci venga illustrato il loro potere e poco altro. Non è un caso, da questo punto di vista, che nel film sia Wolverine a tornare indietro nel tempo, mentre nel fumetto era Kitty Pryde – ridotta nella pellicola a fare da spedizioniere. E lei, Kitty, non è nemmeno una new entry.
Guardando al futuro, 20th Century Fox deve decidersi a essere coraggiosa, senza aggrapparsi a una routine che fornisce garanzie in termini di ritorno dell’investimento economico, ma che incartapecorisce lentamente il franchise – lo sfruttamento intensivo di Wolverine è una spia di questo problema, con tutto che Hugh Jackman sembra nato per la parte.
Insomma, con Giorni di un futuro passato Bryan Singer ha ridato slancio alla serie, rimandando brillantemente il problema. Questo però non lo cancella.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 22/05/2014)