Principessa Mononoke, il capolavoro di Miyazaki Hayao

Grande invidia per coloro che vedranno per la prima volta Principessa Mononoke (film del 1997, che ritorna nei cinema italiani dal 9 al 15 maggio grazie a Lucky Red), perché potranno assaporare quell’esperienza straordinaria che è l’incontro con un capolavoro totale – ancora ricordo la mia, di prima volta: su Laserdisc, in giapponese, senza sottotitoli, capendo poco ma con gli occhi pieni di meraviglia un’inquadratura sì e l’altra pure. Ora il film più bello del maestro Miyazaki Hayao torna nelle sale e questa è un’ottima notizia, perché su grande schermo è anche meglio.

Dovendo indicare a caldo un motivo per l’entusiasmo, mi piace soffermarmi su quello che in moltissime altre pellicole sarebbe un dettaglio sfumato, o magari nemmeno ci sarebbe. Parlo dei kodama, gli spiriti degli alberi. La Natura di Miyazaki è una realtà profondamente spirituale, dunque la loro presenza non sorprende. Ciò che lascia senza fiato e che distingue il maestro giapponese da chiunque altro, è la capacità di raccontarli in modo vivo, pulsante, poetico. Miyazaki dedica loro pochi tocchi, perché di fatto poco valgono dal punto di vista strettamente narrativo, ma la sapienza di quei tocchi basta per riverberare tutto un mondo e per scolpirli nella memoria. Solo i grandissimi raccontatori di storie possono tanto.

Altro elemento d’eccellenza è Lady Eboshi: antagonista straordinaria, simbolo dolente di un’umana volontà di riscatto che fa il passo più lungo della gamba. Non è semplicemente il-personaggio-che-ostacola-l’eroe, è una presenza ricca e complessa. Ed è il faro di un cinema agli antipodi rispetto a molte pellicole che ci tocca subire in sala, un cinema che rifiuta di essere insipido e insultante per i suoi spettatori.

Un’ulteriore conferma arriva dalle parole di Miyazaki stesso. Parlando del protagonista Ashitaka dice: «Abbiamo messo in scena l’odio, ma solo per mostrare che ci sono cose più importanti. C’è una maledizione, ma solo perché volevamo mostrare la gioia della salvezza». Ed ecco un altro motivo d’entusiasmo: Principessa Mononoke rifugge da semplificazioni morali, parla della compresenza di bene e male nella stessa persona e dunque di eroi (ed esseri divini) che devono lottare con se stessi perché il bene trionfi nonostante tutto. Non è dunque un caso se lo zoccolo del possente dio della foresta porta vita e morte, insieme. Ancora una volta, questo è materiale narrativo raro, a maggior ragione se trattato con efficacia.

Poi c’è la splendida colonna sonora di Joe Hisaishi, un grandissimo. E poi ci sono gli straordinari valori produttivi e la capacità di amalgamare animazione tradizionale e tecnologia digitale senza mai perdere di vista che lo scopo principale è raccontare al meglio una storia, non saturare la vista di effetti speciali sperando che l’inconsistenza narrativa passi inosservata. Ecco dunque il “segreto” dietro momenti travolgenti come l’apparizione del dio cinghiale accecato dall’odio, o la sequenza in cui Ashitaka salva San da Eboshi, e gli esempi potrebbero continuare.

Principessa Mononoke è meraviglioso, è la dimostrazione di quanto può essere potente ed entusiasmante il cinema. È un film da vedere e rivedere all’infinito, perché sì.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 06/05/2014)