Ci sono due cose facili da dire su Nymphomaniac. La prima è che Lars von Trier è molto bravo a far parlare di sé e dei suoi film, soprattutto perché sa come approfittare della straordinaria permeabilità dei mezzi d’informazione quando si tirano in ballo parole come scandalo, shock e porno. La seconda cosa è che il suo cinema divide come forse nessun’altra espressione culturale contemporanea: lo ami o lo odi, senza vie di mezzo. Dall’una e dall’altra parte della barricata ci si combatte con il coltello fra i denti. Cercare di argomentare un punto di vista che vada oltre la partigianeria non è semplice, perché finisci dritto come un fulmine in quel campo minato che è il processo alle intenzioni.
Prima di cominciare a camminare tra le mine, devo aprire una parentesi. Nimphomaniac esce nelle sale italiane diviso in due parti, il 3 e il 24 aprile. È una decisione sbagliata, stupida e francamente insultante per il pubblico. Detto questo, parlerò del film nella sua interezza, perché non mi va di assecondare una distribuzione sciagurata terminando il discorso fra venti giorni. Chiusa parentesi. E adesso mine.
C’è una scena, in Nimphomaniac – Vol. I, che racchiude il senso di ciò che voglio dire. Il vecchio Seligman sta ascoltando ormai da tempo la ninfomane Joe che le racconta la sua vita. Quando per la terza volta lei fa entrare in scena Jerome, preceduto da foto strappate distribuite sull’erba, Seligman protesta che l’eccesso di coincidenze non rende plausibile la vicenda.
Ha ragione. Se Joe fosse Lars Von Trier e io fossi Seligman, gli starei dicendo esattamente la stessa cosa. Non importa che un attimo dopo Joe/Lars affermi che per tirare fuori un senso dal suo racconto ci devi credere. Non ci sto credendo, le forzature sono troppe e un conto è sospendere l’incredulità perché vieni accompagnato in quella direzione, un altro è farlo perché te lo impongono.
All’inizio di Nymphomaniac – Vol. II, di fronte alla storia di una visione pseudo mistica, Seligman sbotta di nuovo: «Mi stai prendendo in giro?», dice, e io rivolgerei la medesima domanda a Lars Von Trier. Sapendo però che la risposta è sì.
Come già visto in molti film precedenti, a Lars von Trier interessa il momento clou, non la narrazione. Quello che fa è sbatterti in faccia una situazione sconvolgente o emotivamente travolgente, senza curarsi di rendere particolarmente verosimili le tappe che la preparano. È chiaro che ottiene comunque una reazione dal pubblico, perché mica siamo dei sassi insensibili, ma la ottiene in modo scorretto. L’epilogo della “figlia adottiva”, con quel che succede nel vicolo, è un esempio perfetto (accade nel Vol. II). La stessa cosa vale per l’irruzione della perfida signora H (Vol. I), in cui prevale il gusto per il gioco narrativo interno e votato all’eccesso, più che il senso generale. Allo stesso modo è tirata per i capelli la premessa stessa del film, cioè che Seligman si porti in casa Joe e che lei cominci a raccontargli la sua storia.
Questa strategia risulta ancora più fastidiosa quando invece il momento clou arriva con le giuste premesse, vedi la sequenza straordinaria dedicata al padre morente di Joe. È come se potendo realizzare un bel film (la storia di Joe e di suo padre), Lars von Trier avesse preferito vestire i panni del monello, allargando a dismisura il campo e approfittandone per inserire un tocco di blasfemia e qualche genitale in bella vista: l’una e gli altri innocui, stupidamente provocatori, già visti e rivisti in tutte le salse e dunque tremendamente noiosi.
Il cerchio si chiude durante un altro dialogo fra Joe e Seligman (Vol. II). Lei gli ha appena raccontato di quando ha perduto la sensibilità sessuale e lui la interrompe per dire che la situazione gli ricorda il paradosso di Zenone, con Achille (Joe) impossibilitato a raggiungere la tartaruga (l’orgasmo). Lei sbotta, giustamente, e poi intuisce che Seligman non si è eccitato mentre gli raccontava le sue avventure erotiche perché è asessuato, perché si eccita non per le tresche di letto ma per le «mathematical crap», le stronzate matematiche.
Torniamo a bomba, allora. Qualche paragrafo sopra ipotizzavo che Joe fosse Lars Von Trier e io (lo spettatore) fossi il Seligman che protesta la scarsa plausibilità del racconto. E se invece ora Lars von Trier fosse Seligman? In fondo, a questo punto di Nymphomaniac ha già trovato il modo di inserire la successione di Fibonacci, senza contare che mettere nella stessa stanza una ninfomane con un asessuato è giocare (matematicamente?) con gli opposti. È come se Lars von Trier avesse strutturato il suo film sostituendo lo stile alla narrazione. Come se questo fosse sufficiente a farsi perdonare le forzature interessate e furbe. Però lo stile, senza sorreggere una trama come dio comanda, rischia di fare la figura della stronzata matematica.
Certo, si può anche ipotizzare che Lars von Trier si stia mettendo a nudo, denunciando l’incapacità di penetrare il mistero delle donne. Ed è qui che si spalancano le porte al processo alle intenzioni, per definizione terreno scivolosissimo anche se talvolta obbligato. Io, di mio, propendo per la tesi che in Nymphomaniac Lars von Trier faccia il furbo e vesta in modo scorretto i panni dell’enfant terrible. E penso che la tirata finale relativa alla vendetta del genere femminile su quello maschile sia una pesantissima prova a mio favore.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 03/04/2014)