Entrando in sala per vedere Smetto quando voglio, mi cade l’occhio sulla scritta nella parte bassa del poster. Dice: “Il film più divertente dell’anno”. Siamo a inizio febbraio e l’affermazione sembra niente di che. Terminata la proiezione, quelle medesime parole non si rivolgono più al passato ma sfidano il futuro. C’è da scommettere, infatti, che l’esordio lungo del salernitano Sydney Sibilia sarà il film più divertente dell’anno ancora per molti mesi.
Urge una premessa: se possibile è meglio evitare di guardare il trailer, o magri farlo una sola volta, perché purtroppo anticipa fin troppi momenti divertenti. A differenza però di altre pellicole (Il grande match, ad esempio) Smetto quando voglio non solo mantiene le promesse, ma non esaurisce nel trailer tutte le battute e le situazioni comiche.
Detto questo, largo all’entusiasmo, perché era dai tempi di Notte prima degli esami che non si vedeva una commedia italiana altrettanto fresca e scanzonata. Risultato ancora più meritevole, in questo caso, perché ottenuto dopo aver gettato uno sguardo sulla sconfortante realtà dei cervelli italici, condannati all’espatrio o all’oblio. Era questo il primo grande ostacolo alla riuscita del film, mantenere dritta la barra della commedia senza farsi fagocitare dal discorso sociale. Tenerlo come sfondo, non come centro gravitazionale della narrazione, così da basare i meccanismi della risata su un contesto leggero e riuscire così a passare rapidi da una situazione alla successiva senza venire tacciati di superficialità.
Per la precisione, stiamo parlando di uno sfondo piuttosto sfuocato ed è qui che si misura la distanza più evidente dalla tradizione della commedia all’italiana, spesso velata da maggiore amarezza di fondo. L’ultimo dialogo di Smetto quando voglio è un ottimo esempio, in questo senso, perché sarebbe stato il momento ideale per un tocco di amarezza, invece se ne tiene lontanissimo. Se però l’ombra della commedia all’italiana è stata spesso evocata per dare un tono a pellicole stanche e muffose, qui l’apparentamento è più veritiero, perché, fatte le relative proporzioni, sono simili la brillantezza della sceneggiatura, la mano sicura del regista e l’affiatamento di un cast in ottima forma (soprattutto quello maschile).
Tutto questo non avrebbe funzionato se Sibilia, insieme ai cosceneggiatori Valerio Attanasio e Andrea Garello, non avessero saltato di slancio il secondo e ultimo ostacolo che li separava dal traguardo. Mi riferisco all’inevitabile esito di un’impresa criminale come quella raccontata, perché i nostri eroi sono pur sempre dei dilettanti del crimine e a furia di pestare piedi è chiaro che in tempo zero avrebbero dato noia alle persone sbagliate. C’è un momento, a circa tre quarti della pellicola, dove effettivamente il tono cambia, si fa più serio. Ma è solo un momento, serve giusto a lanciare la cavalcata finale, che torna nel solco della commedia e lo fa in modo convincente, senza scadere in qualcosa di stupidino o all’acqua di rose. Ci vuole un bel senso dei pesi e delle misure per centrare un simile bersaglio. Complimenti a Sibilia: questo è un esordio coi fiocchi.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 13/02/2014)