Dallas Buyers Club, quando l’AIDS faceva (più) paura

Commentare Dallas Buyers Club è compito facile e difficile insieme. La parte semplice riguarda Matthew McConaughey e Jared Leto, attori spesso osteggiati, e a ragione, ma che questa volta ci offrono l’interpretazione di una vita e meritano tutti i complimenti che stanno ricevendo. Detto questo mettiamoci comodi, perché le cose si complicano.

Prendiamola un poco alla larga: il film racconta la storia vera di Ron Woodroof, elettricista texano che un giorno si sente male e finisce in ospedale. I medici fanno gli esami del sangue e sparano la bomba: è malato di AIDS, gli rimangono trenta giorni di vita. Siamo a metà degli anni Ottanta, quando la ricerca medica brancola nel buio e l’idea comune della gente è che il virus dell’HIV sia una cosa da checche e drogati.

Così a Woodroof succedono due cose. Intanto gli amici lo mollano, nonostante lui sia etero e donnaiolo e questo sia di dominio pubblico; ma si sa, paura e ignoranza sono più forti. La seconda cosa è che comincia a sgomitare in cerca di un rimedio, prima tentando con ciò che offrono le case farmaceutiche (l’AZT), poi rivolgendosi a terapie alternative e infine, convintosi della loro efficacia, organizzando un’attività imprenditoriale per fornirle ad altri malati. La morte sopraggiunge nel settembre 1992, moltissimo tempo dopo le previsioni mediche.

Torniamo dunque alle cose complicate. È chiaro che un bravo attore contribuisce significativamente alla riuscita di un film, ma se viene lasciato solo può fare ben poco. Il rischio, nel caso di Dallas Buyers Club era insito nella vicenda raccontata. Prendiamo ad esempio il fatto che la lotta di Woodroof contro l’ignoranza di amici e conoscenti lo porta a superare la propria omofobia e a rivalutare la comunità LGBT. Sommiamo a questo la polemica contro gli interessi delle case farmaceutiche, stimolate dai guadagni più che dalla salute dei pazienti. Il risultato puzza di film a tema lontano un miglio, esito sempre fastidioso perché sa di predicozzo, di ammonimento col ditino alzato. E questo a prescindere dalla bontà del messaggio e delle intenzioni.

Una soluzione possibile, per evitare il peggio, è di giocare con lo sfondo. Nel senso di relegare in secondo piano le questioni politiche e sociali e di focalizzarsi sulla vicenda umana del protagonista, in modo che lui riverberi alcune questioni di fondo. Non tutte, però, altrimenti si rischia di trasformarlo in un semplice megafono e così scadere nel film a tema.

Gli autori di Dallas Buyers Club (il regista Jean-Marc Vallée e gli sceneggiatori Craig Borten e Melisa Wallack) hanno chiaramente fiutato il pericolo e intelligentemente hanno evitato di edulcorare l’immagine di Ron Woodroof, decisamente poco altruistico ed empatico, ferocemente omofobo e persino spietato nei confronti di coloro che non potevano pagare le cure da lui fornite. C’è chi sostiene che il vero Woodroof fosse meno spigoloso, ma la questione di fondo resta: il personaggio che vediamo su grande schermo ostacola l’immedesimazione del pubblico, il quale, di conseguenza, ha pochi appigli per farne il paladino di una buona causa. E questo non cambia nemmeno quando Matthew McConaughey impara ad apprezzare l’ambiente LGBT, perché ciò accade ben oltre la metà della pellicola e dunque non cancella le ombre del personaggio. Consente giusto di illuminarle un poco.

Dallas Buyers Club sarebbe stato completamente diverso se avesse avuto Rayon (Jared Leto) come protagonista. La sua gentilezza, vulnerabilità e simpatia ci avrebbero trascinato inesorabilmente al suo fianco, spalla a spalla nella lotta. E a quel punto sarebbe riemerso lo spettro del film a tema.

Resta però il fatto che la vicenda di Ron Woodroof riverbera tutte, ma proprio tutte le questioni politiche e sociali di fondo. Non solo alcune, che sarebbe stato l’optimum. Del resto è inevitabile, perché così sono andati i fatti nella vita vera. Ma mi resterà sempre il dubbio di come sarebbe stato il film se avesse gravitato intorno a un etero omofobo che riscopre l’affettività, oppure a un medico appassionato in cerca di una cura efficace. Non entrambe le cose condensate in un unico personaggio. È una questione di sguardo, di giustezza del punto di vista rispetto alla storia raccontata.

Credo che la reazione di due colleghi giornalisti, a fine proiezione, metta il dito nella piaga. Li ho sentiti dispiacersi perché avrebbero preferito maggiori dettagli sui comportamenti dell’industria farmaceutica. E mi sembra chiaro che questa richiesta nasca dal precario equilibrio incarnato dal personaggio di Ron Woodroof, che ti tiene distante dal film a tema (è poco simpatico) e insieme ti avvicina a esso (riverbera lo sfondo nella sua interezza).

Con un problema in più. A furia di aggiungere dettagli clinici, di solleticare la sacrosanta curiosità del pubblico, avremmo forse conosciuto i dati di mortalità nei paesi che adottavano un protocollo diverso da quello statunitense, avremmo potuto distinguere gli sforzi degli scienziati dai rimedi dei ciarlatani (ci furono) e dagli interessi economici delle case farmaceutiche (ci furono pure questi). E magari avremmo capito come mai l’AZT, fortemente osteggiato in Dallas Buyers Club, è a tutt’oggi parte del cocktail di farmaci che tiene in vita migliaia di persone. Saremmo cioè stati di fronte a un documentario, più che a un lavoro di finzione.

Tutto questo ragionamento per meravigliarsi, ancora una volta, di quanto sia delicato un film, di come basti spostare un piccolo elemento per rischiare di far crollare tutto. Esito che sarebbe stato ancora più triste in questo caso, a fronte di attori in stato di grazia e di un regista con mano felice. Per fortuna non assistiamo a un crollo: Dallas Buyers Club ha un equilibrio precario, ma si regge in piedi.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 30/01/2014)