Il dio del tuono fa cilecca

Vorrei ma non posso: queste quattro parole riassumono Thor: The Dark World. Vorrei nel senso che l’esempio guida è la ricetta action comedy cucinata da Joss Whedon nel suo The Avengers. Non posso nel senso che gli autori del secondo Thor non sono abbastanza bravi per adottare un tono scanzonato e sopra le righe senza varcare il sottile confine che porta allo svacco.

L’esempio forse più calzante di questa deriva è rappresentato dal personaggio di Natalie Portman e dalla sottotrama romantica che presiede. Sulla carta è un elemento fondamentale della sceneggiatura: superata l’arroganza del primo film, la nuova sfida di Thor è assumersi la responsabilità delle sorti di chi dipende da lui, in primis la fidanzata terrestre. È qui che gli sceneggiatori Christopher Yost, Christopher Markus e Stephen McFeely compiono un primo passo falso: presi dalla fregola di punteggiare la vicenda di gag comiche, trasformano la scienziata Jane Foster in una ragazzina piantata in asso dal figo di turno, che sparisce senza richiamarla e che merita schiaffi risentiti quando ricompare come se nulla fosse. È del tutto irrilevante che questi sia un supereroe, perseguitato di conseguenza da superproblemi.

Nei primi due Spider-Man di Sam Raimi, ottimo esempio di action comedy, la responsabilità di Peter Parker nei confronti dell’amata era argomento decisamente più sostanzioso e fertile. Qui invece il timore per le sorti di Jane Foster è davvero poca cosa: ciò che conta è quanto possente sarà il successivo colpo di martello, ma così lo sviluppo narrativo di Thor parte zoppo.

Resterebbero gli Asgardiani, l’altro grande motivo di preoccupazione che sulla carta dovrebbe animare il dio del tuono. Ed effettivamente in un paio di punti se ne parla, prima quando Thor dissente rispetto alle intenzioni paterne, che potrebbero portare al sacrificio di moltissimi sudditi, poi quando decide di rinunciare al trono di Asgard perché non è disposto ad accettare il prezzo che il potere comporta (leggi: l’accettazione di un certo cinismo spietato). Peccato che questi siano solo un paio di punti isolati, quasi fossero elementi seri piazzati nella storia per darsi un tono ma senza essere utilizzati come motore della vicenda.

Alla fine è davvero difficile rintracciare la ragione intima che spinge Thor a combattere gli elfi oscuri di Malekith. Del resto, le azioni di quest’ultimo sono completamente prive di motivazioni. Ridotta all’osso, la trama di Thor: The Dark World racconta di un megalomane fuori di testa che vuole distruggere tutto perché gli gira così, e di un eroe che agisce giusto perché si trova sulla strada del cattivo di turno. Capita talvolta di ridere, perché alcune gag sono riuscite, ma quando il respiro narrativo si fa più ampio la mancanza di sostanza si fa sentire.

Qui entra in scena la regia muscolare di Alan Taylor, che parte bene e termina così così. Facendo tesoro della sua esperienza sul set del Trono di Spade (ha diretto sei episodi), decide di utilizzare il mondo fantastico di Asgard “per dare freschezza a quello che di fatto è un dramma consueto nelle nostre vite”, nel caso specifico la rivalità tra due fratelli, Thor e Loki, e il travaglio del primo di fronte alle sue responsabilità – per un momento mettiamo fra parentesi che la sceneggiatura parla poco e male di queste cose: non è colpa del regista.

Perseguendo questa idea, Alan Taylor racconta il reame di Asgard gettandosi a capofitto in un immaginario fantasy che deve molto al Signore degli Anelli e che si allontana dal taglio adottato da Kenneth Branagh, regista del primo Thor.

Cerco di spiegarmi: anche nel film di Branagh si parla di conflitti in cui possiamo facilmente riconoscerci, però questi sono ambientati in un mondo che, soprattutto per il suo gigantismo, è chiaramente altro rispetto alla Terra. L’immaginario fantasy di Taylor porta invece con sé una chiara traccia di ciò che conosciamo: è più ancorato alla realtà, meno divino (nel senso delle divinità nordiche). È una scelta lecita e coerente con l’intenzione iniziale, dunque bene.

Quando però passiamo dalle intenzioni ai fatti qualcosa si inceppa. Mentre Kenneth Branagh costruisce un immaginario coerente e originale, Alan Taylor si perde in un mondo derivativo, che accatasta spunti presi altrove (da Peter Jackson, dal Trono di Spade) senza riuscire ad amalgamarli in un qualcosa che abbia una propria autonomia. Così la sua Asgard diventa una sorta di Gran Burrone post condono edilizio e in Rete fioccano elenchi ironici degli elementi rubacchiati da altre pellicole. Esito poco lusinghiero quando sei intento a raccontare la battaglia per salvare l’intero universo. Anche in questo caso, insomma, la distanza fra desiderio e risultato è tanta. Come si diceva all’inizio: vorrei ma non posso.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 20/11/2013)