Oldboy, le ragioni di un fallimento

Spulciando le recensioni pubblicate in mezzo mondo, salta fuori che Spike Lee ha preso sonori schiaffoni. La sua versione di Oldboy è piaciuta poco e spesso è stato fatto un confronto impietoso con il precedente adattamento del manga di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi, cioè l’omonima pellicola firmata dal sudcoreano Park Chan-wook e uscita nel 2003.

A mio parere, il motivo principale della debacle riguarda i pesi e le misure messi in campo da Spike Lee e dal suo sceneggiatore Mark Protosevich. È un peccato, perché guardando il disegno generale, quello che sorvola su pesi e misure, il nuovo Oldboy sta in piedi più di quanto potrebbe far intendere la severità delle critiche. Fra due paragrafi sarà tutto chiaro.

Restando più fedeli al manga, Lee e Protosevich hanno deciso di cambiare le carte in tavola rispetto all’impostazione di Park Chan-wook: non più la storia di una sconfitta, bensì la parabola di un riscatto. Per certi versi questa modifica non sorprende: quello statunitense è spesso un cinema d’eroi, cioè di personaggi capaci di far tesoro delle esperienze vissute e di determinare in modo positivo il proprio destino. Per contro, l’Oldboy di Park Chan-wook afferma che una volta agguantata la vendetta non restano che il suicidio e l’oblio, esiti che hanno poco di eroico nell’accezione del cinema a stelle e strisce.

Sembra dunque logico che Protosevich abbia voluto essere più aderente al personaggio principale del manga, che è forte, stoico, determinato e capace di far naufragare la vendetta ordita ai suoi danni. E infatti il protagonista del film di Spike Lee si rivela un vincente. Per quanto terribile sia la sua decisione finale, si tratta pur sempre della scelta consapevole di un eroe che guarda in faccia le proprie responsabilità. Dal punto di vista narrativo la struttura porta avanti questa idea in modo coerente.

Perché dunque il film non funziona? Perché, appunto, sbaglia i pesi e le misure del racconto. Prendiamo ad esempio il prologo del film, quando Joe Doucett (Josh Brolin) vaga sbronzo per le vie cittadine. Cosa ci raccontano del personaggio quelle inquadrature, a parte che beve troppo? Park Chan-wook aveva sfruttato più o meno lo stesso numero di minuti per aggiungere altri elementi: la vigliaccheria del suo protagonista, ad esempio, e poi la capacità di risultare antipatico, molesto, stupido. Se l’intenzione di Spike Lee era limitarsi all’alcolismo, allora bastava meno tempo. Sbagliando la misura, invece, realizza una sequenza che di fatto mette in mostra l’abilità di Josh Brolin e poco altro.

Un altro esempio chiama in causa il vecchio amico dal quale si rifugia Joe Doucett una volta liberato dalla prigionia e che si comporta come se Joe non fosse accusato di omicidio. Anche il film di Park Chan-wook ha il medesimo errore di scrittura, ma in quest’ultimo caso il difetto non emerge con altrettanta evidenza perché in precedenza si è insistito di meno sul delitto e così noi spettatori siamo più disposti a chiudere un occhio. Ancora una volta si tratta di pesi e misure e le stesse osservazioni valgono per l’antagonista di Joe Doucett, colui che l’ha imprigionato: è eccessivo sia nella caratterizzazione del personaggio sia nel racconto del rapporto che lui e la sorella avevano con il padre. In generale, poi, laddove la regia di Park Chan-wook era virtuosistica e sovraccarica ma non pesante, quella di Spike Lee risulta altrettanto carica però decisamente meno leggera.

Poi, certo, l’impatto emotivo sul pubblico resta notevole, a maggior ragione per coloro che non conoscono il manga o il film del 2003, ma questo è merito più delle fonti precedenti che del nuovo Oldboy.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 10/12/2013)