A giudicare dai recenti Golden Globes, Nebraska potrebbe diventare la pellicola più sottovalutata della stagione. Non tanto perché i vincitori demeritino. È che la distratta macchina mediatica tende a dimenticare chi non arriva primo. Se questo dovesse accadere sarebbe un destino curioso, considerato che Alexander Payne racconta persone e luoghi che un podio non l’hanno visto neppure da lontano. Ma sarebbe anche un destino ingiusto, perché questo è un gran film.
Partiamo da una scena in particolare, quella in cui il vecchio Woody Grant, uomo di poche parole e troppe bevute, sottolinea con stizza che il Monte Rushmore non è terminato: uno solo dei presidenti ha il vestito, a un altro manca un orecchio. È come se gli scalpellini «si fossero stancati» e avessero piantato lì il lavoro. Su questa scena ho avuto un sussulto, perché quando un film tira in ballo le metafore si pone su un crinale molto insidioso, dove è facile inciampare e essere grossolani. Peccato ancora più grave, quest’ultimo, considerata l’attenzione ai dettagli obbligatoria per un racconto semplice, minuto e disadorno come quello di Nebraska.
I miei timori si sono rivelati infondati e anzi il Monte Rushmore è diventato con eleganza una doppia metafora, quella di una famiglia e quella di una nazione. Ai Grant manca qualcosa, soprattutto in termini di affettività, e la colpa è tutta di Woody, padre assente, alcolizzato, che non si è mai chiesto se amava la moglie e che ha avuto figli solo perché voleva scopare (parole sue).
Agli Stati Uniti di Nebraska manca invece lo slancio, l’anelito verso qualcosa di più grande, come se coloro che hanno costruito il paese a un certo punto si fossero stufati e ora, trascorso qualche decennio, si ritrovino anziani, annoiati, non più protagonisti della mitica Frontiera ma figurine sbiadite di una provincia cadente. Tanto che l’ideale dell’affermazione economica, uno dei cardini del mito statunitense, sopravvive solo in una truffa, quella che spinge Woody a mettersi in viaggio per agguantare un milione di dollari che figli e moglie sanno non esistere. Per certi versi Nebraska ribalta una delle caratteristiche del road movie, quella che accomuna il viaggio alla scoperta di sé. Qui, invece, alla fine scopri solo che ti hanno fregato.
Malinconico, vero? Infatti è curioso che Nebraska sia stato classificato come commedia (dai Golden Globe, ad esempio). Non che manchino i momenti buffi, ma questi nascono solo in parte da situazioni e personaggi: più spesso sembra di intravedere il punto di vista di Alexander Payne rispetto al dramma raccontato, un atteggiamento distaccato e talvolta snob. Prendiamo ad esempio l’incontro di David Grant, che sta scortando papà Woody lungo la strada, con i cugini campagnoli. Le risate nascono dal contrasto fra la sensibilità di David e l’ottusità di ragazzoni un po’ scemi, capaci solo di misurare chi ha l’automobile più potente. Quando poi la situazione si ripete, con minimi cambiamenti, a famiglia allargata, qualcosa fa cilecca. È la reiterazione a essere sbagliata, perché un conto è dire che due persone sono degli zoticoni, un altro è estendere l’osservazione a tutto un ambiente, senza distinzione.
In questo momento Alexander Payne guarda dall’alto verso il basso i suoi personaggi, una condotta che, pur facendo ridere, stona con il nucleo di Nebraska, che è drammatico e che dà il meglio quando il regista vi si accosta con empatia. Vedi ad esempio la scena della dentiera perduta o la sequenza in cui Woody torna a guidare, in cui ci sono due sguardi che da soli valgono il film: quello di David, contento di una dignità riconquistata, e quello della vecchia giornalista, che in un paio di secondi racconta tutto un mondo senza bisogno di parole.
Accennando agli sguardi arriviamo alla vera marcia in più di Nebraska, cioè la capacità di calibrare alla perfezione quasi tutti i dettagli. Consentitemi una metafora: il racconto cinematografico può essere scritto con un evidenziatore indelebile (ad esempio Michael Bay) oppure con una matita punta fine (Nebraska). Nel primo caso si possono trascurare alcune minuzie, perché prevale il tratto grosso e d’impatto; nel secondo ogni cosa diventa fondamentale. È per questo che stona il punto di vista snob.
Quando però l’equilibrio è giusto, allora noi spettatori godiamo. Prendiamo ad esempio l’unico momento in cui vediamo David Grant al lavoro come venditore di impianti stereo. Sta esponendo a due clienti le qualità di un prodotto e, pur non sentendo ciò che dice, possiamo intuire competenza ed entusiasmo. Se il Monte Rushmore fosse un Simbolo, non un Incompleto, la vendita andrebbe probabilmente a buon fine. Invece capiamo subito che non sarà così. Perché? Perché entrano in gioco la postura dei clienti, un look e un’età che li fanno sembrare fuori posto, il fatto che noi spettatori siamo tenuti all’esterno della stanzetta d’ascolto, con un’inquadratura fissa che contrasta la dinamicità della parlantina di David. C’è anche una piccola pausa che segue la sua esposizione, quella in cui dovrebbero parlare gli acquirenti e che invece resta muta. Sono tutti dettagli, appunto, che concorrono a una scena perfetta e a un cinema di grande livello.
P.S.: Nebraska è recitato da dio e la colonna sonora è una bomba, ma non chiedetemi del bianco e nero: non ho capito perché Alexander Payne l’abbia scelto e non mi basta che dica «l’ho sempre desiderato. È un formato bellissimo». Così sembra una furbata per darsi una patina artistica di cui in realtà non ha bisogno.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 14/01/2014)