Alla fine del Signore degli Anelli quattro hobbit siedono in una locanda, quasi incapaci di godersi la spensierata allegria dei loro compaesani. Troppo grandi sono state le prove e i dolori affrontati e quando la tensione si scioglie le loro risate suonano meno briose rispetto a quelle del tavolo accanto. Dovessimo immaginare una simile scena per il finale dello Hobbit, probabilmente assisteremmo a una bevuta senza crucci, perché nonostante la serietà delle vicende affrontate, il tono generale dell’avventura è stato buffo più che epico.
Già nel Signore degli Anelli Peter Jackson aveva affidato al nano Gimli la linea comica, e ora che Aragorn e compagnia non ci sono, mentre di nani ce ne sono tredici, l’elemento ridanciano ha preso il sopravvento. Anche quando gli umani tornano in scena, vedi gli abitanti di Pontelagolungo, ci troviamo comunque di fronte a comicità, declinata in questo caso con venature grottesche. Tanto che il personaggio di Bard, serio ed eroico, spicca come una gemma in un sacchetto di noci.
L’ottimo Martin Freeman (Bilbo) ci aggiunge del suo ed è emblematico in questo senso l’incontro con Smaug: al posto di un minimo sindacale di panico, assistiamo a un divertente calcolo a spanne delle dimensioni del drago. E persino, qualche minuto dopo, a una reazione al suo alito fetido che provoca il sorriso del pubblico in sala.
Non è un caso, dunque, se uno dei momenti più epici della Desolazione di Smaug sia l’incontro fra Gandalf e il negromante che si nasconde a Dol Guldur: una scena nella quale, per ovvie ragioni narrative, mancano Bilbo, Thorin e nani vari. È come se fossimo di fronte a una parentesi seria all’interno di una action comedy.
Aver sposato la commedia come registro principale della narrazione non è di per sé una cosa negativa. Anzi, è forse l’elemento che più in profondità testimonia la volontà di restare fedeli allo spirito del romanzo di Tolkien, nonostante gli innesti narrativi presi in prestito da altre sue opere (in primis le appendici del Signore degli Anelli) e a dispetto delle aggiunte originali, come ad esempio la guerriera elfica Tauriel.
È come se la chiave comica fosse stata la quadratura del cerchio per il quartetto di sceneggiatori formato da Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson e Guillermo del Toro. Proviamo a metterci nei loro panni: aveva senso adattare Lo Hobbit facendo finta che non esistesse il precedente cinematografico del Signore degli Anelli? Potevano davvero fingere che un dato personaggio, o un dato oggetto, non avessero un’importanza più grande rispetto a ciò che poteva sembrare sul momento? Come avrebbero gestito, ad esempio, l’incontro fra Gollum e Bilbo e il furto di un certo anello dorato?
Una volta scelto di adattare Lo Hobbit come fosse una sorta di sequel in flashback, è sorto un problema: nel romanzo, l’avventura nella tana di Smaug non ha un respiro epico e narrativo sufficiente per reggere il confronto con Il Signore degli Anelli. La posta in gioco non è paragonabile: se la missione di Bilbo e Thorin fallisce, i nani non riconquistano la loro patria, che è cosa ben diversa dalla distruzione della Terra di Mezzo qualora Frodo e Aragorn falliscano la loro, di prova.
Ecco dunque le aggiunte narrative, soprattutto quelle determinanti che riguardano il negromante di Dol Guldur e le conseguenti preoccupazioni del Bianco Consiglio. In questo modo la missione di Gandalf assume una caratura completamente diversa e di conseguenza il sequel in flashback sta in piedi. Solo che, appunto, agli sceneggiatori resta il cruccio di non tradire lo spirito dello Hobbit, desiderio che hanno sbandierato ai quattro venti. Come fare, però? Credo che la quadratura del cerchio sia stata appunto la chiave comica, perché più vicina al tono fresco di un romanzo che di fatto era meno ambizioso ed epico del Signore degli Anelli.
Si tratta però di una quadratura complessa da far funzionare e non sorprende che il grosso dei grattacapi, in fase di scrittura, abbia riguardato la struttura (Fran Walsh e Philippa Boyens l’hanno ammesso in più occasioni).
Se il giudizio finale sul loro lavoro è per forza rimandato all’anno prossimo, quando potremo vedere l’ultimo capitolo della trilogia, già ora è possibile osservare che il gioco a incastro della sceneggiatura tende a mostrare il fianco quando vorrebbe privilegiare l’aspetto epico: vedi ad esempio il dialogo fra Thorin e Thranduil, il re degli elfi di Bosco Atro. Che i toni solenni possano fare cilecca non è dettaglio di poco conto, considerate le battaglie che ci attendono a dicembre del 2014, quando uscirà Lo Hobbit: racconto di un ritorno.
Ultima cosa, che c’entra nulla con il discorso svolto finora: Legolas fa spesso un saltello per scoccare una freccia in volo e non perde occasione di scivolare da un pendio come se avesse uno skate sotto i piedi. Ecco, in quei momenti mi è venuta voglia di prenderlo a schiaffi.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 18/12/2013)