Lo sbarco su grande schermo del Capitano sancisce un passaggio di testimone. Non tanto perché la pirateria sia fuori tempo massimo, ma perché quel pirata in particolare, quello «tutto nero che per casa ha solo il ciel» (come cantavano Alberto Tadini e Paola Orlandi) ha troppi scheletri nell’armadio per giocare a fare quello senza macchia e senza paura. Alla fine di Capitan Harlock, un nuovo eroe sembra maturo per prendere il comando dell’Arcadia: ha i capelli sbarazzini, la fascia sull’occhio e la medesima corporatura del predecessore. Gli manca giusto il mantello, ma questo non disturba nessuno, sul ponte di comando.
È quasi come se il costume da pirata fosse sufficiente a far vivere per sempre il Capitano, come se il simbolo che rappresenta fosse a disposizione e aspettasse solo qualcuno disposto a farsene carico. Se così stanno le cose, allora la questione principale è che questo qualcuno sia in sintonia con i tempi, in modo tale che la pirateria non si accartocci attorno a uno sterile amarcord ma abbia una prospettiva. E la caratteristica che differenzia il nuovo Capitano da quello vecchio è la capacità di mettersi in discussione.
C’è infatti un elemento che accomuna l’Harlock del 2013 e quello raccontato da Leiji Matsumoto nel manga del 1976 e poi nella serie tv del 1978. Entrambi sono risoluti al limite della testardaggine e oltre. Se ti inquadrano nel mirino ti inseguono tipo schiacciasassi, e se negli anni Settanta questo significava danni non necessari per Raflesia e le Mazoniane, oggi scopriamo che la devastazione può essere molto più vicino a casa nostra.
Il momento chiave di Capitan Harlock è allora quello in cui il nuovo Capitano in pectore decide di tirare il fiato e di astrarsi da una trance agonistica che concepisce la sconfitta totale dell’avversario come unico esito possibile. E mentre tira il fiato si prende la briga di andare a verificare di persona come stanno le cose. Proprio questo lo rende degno di vestire i panni del Capitano, di portare avanti il simbolo rappresentato dal costume.
Sembra quasi di assistere a un’evoluzione del finale del film V per Vendetta, dove il fatto di indossare la maschera di Guy Fawkes ti qualificava automaticamente e anonimamente come un’emanazione di V, tanto che solo togliendo il travestimento potevamo riconoscere le individualità che si celavano dietro le apparenze tutte uguali – fino a quel momento il vero volto di V non era mai stato necessario, per definirlo.
In Capitan Harlock non assistiamo a un annullamento dell’individualità: ciò che vediamo è l’affermazione di un tipo diverso di persona, che proprio in virtù del contrasto con il vecchio si appresta a (meglio?) indossarne i simboli.
È un peccato che questo discorso si presenti agli occhi dello spettatore attraverso una sceneggiatura traballante, che infila un numero record di colpi di scena, quasi fosse ossessionata dal tener desta l’attenzione, e che tenta maldestramente di spiegare a parole ogni singolo snodo narrativo. Considerato il livello notevole della realizzazione tecnica e quanto sono efficaci le battaglie nello spazio, con uno sceneggiatura degna di questo nome avremmo avuto un filmone.
(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 01/01/2014)