Quanto siamo liberi quando facciamo sesso?

Capita di porsi una domanda («quanto siamo liberi quando facciamo sesso?») che a prima vista non sembra troppo insidiosa e invece spalanca un mondo vasto, complesso, impossibile da condensare in una risposta univoca. A me è successo dopo aver visto i film La vita di Adele e Don Jon, e questa è la cronaca di ciò che è accaduto in seguito. Si accenna alle due pellicole, si parla di sesso, di rappresentazione della sessualità e di come il porno (ma anche in cinema d’autore francese e quello indie a stelle e strisce) possano influenzare il nostro modo di comportarci tra le lenzuola.

Tutto comincia leggendo ciò che scrive Julie Maroh, l’autrice del fumetto che ha ispirato La vita di Adele: «Ciò che nel film mancano sono le lesbiche. Non so dove il regista e le attrici abbiano preso le loro informazioni, e io non sono stata consultata a riguardo. Forse sul set c’era qualcuno che goffamente suggeriva le possibili posizioni delle mani oppure mostrava video del cosiddetto porno lesbo (sfortunatamente, è molto raro che sia credibile per un pubblico di lesbiche). Lo dico perché, con l’eccezione di pochi momenti, ciò che ho visto su grande schermo è stata una rappresentazione brutale e chirurgica, esuberante e fredda di ciò che si ritiene essere il sesso fra lesbiche, ma che di fatto era pornografia e mi ha disturbato. Soprattutto quando, in sala, tutti ridacchiavano: gli etero perché non lo capivano e lo trovavano ridicolo; i gay e queer perché lo trovavano irrealistico e ridicolo. E gli unici che non stavano sghignazzando erano i ragazzi troppo impegnati a godersi un’incarnazione su grande schermo delle loro fantasie».

Pochi giorni dopo aver letto l’opinione di Julie Maroh, ne parlo con un collega e lui mi dice di aver visto La vita di Adele insieme ad alcune amiche lesbiche e che loro hanno trovato le scene di sesso molto verosimili. Sarà mica perché il porno di cui parla Maroh le ha influenzate? La domanda ha un suo senso, considerato quel che mi dice Daniela Fois, psicoterapeuta: «La sessualità non è solo una cosa istintiva. È anche legata in parte a dei modelli che sono veicolati, tra le altre cose, dalla Rete».

Domanda di ordine sociologico: è stato indagato un eventuale legame fra la sessualità, soprattutto quella di giovani lesbiche, e i modelli proposti dal porno in Internet? Sveva Magaraggia, sociologa e ricercatrice all’Università di Roma Tre, dice che è un terreno battuto poco o niente, ma che qualche spunto può essere rintracciato in due saggi: il primo si intitola Handbook of the New Sexuality Studies ed è curato da Steven Seidman, Nancy Fischer e Chet Meeks; il secondo è Guyland, di Michael Kimmel.

Ecco dunque uno spunto interessante, sebbene di carattere più generico: «I ragazzi, e anche le ragazze, crescono circondati da immagini sessualizzate di donne e questo prima ancora che inizino a pensare al sesso. […] soprattutto per i giovani uomini, la pornografia rappresenta almeno in parte un corso di educazione sessuale, per quanto distorta possa essere quell’immagine del sesso» (Guyland).

E ancora, parlando dei mass media in generale, nell’Handbook of the New Sexuality Studies si legge che: «Nella maggior parte dei casi i mass media offrono una visione eterosessuale del mondo e parlano al loro pubblico come se fosse composto esclusivamente da eterosessuali». Osservazione che resta valida anche tenendo conto che «il mercato del porno in Internet è regolato dal mercato e dalla competizione più che dai desideri dei consumatori. Dunque può rivelare più cose sull’e-commerce e sul mercato virtuale che sulla sessualità».

Tutto questo sembrerebbe dare ragione a Julie Maroh, se non fosse che poi incontro Viviana Bruno di MeLaDaiLaBrianza e lei spariglia le carte: «Mi ci sono ritrovata, nelle scene di sesso della Vita di Adele. Lo faccio così e mi diverto pure, ma non sono una gran fruitrice di pornografia». La cosa curiosa è che Maroh (classe 1985) e Bruno (1987) sono sostanzialmente coetanee, dunque in linea teorica, e fatte salve le differenze culturali, sono cresciute nello stesso mondo descritto dai trattati di sociologia – non è obbligatorio che tutto torni, ovvio, e anzi la soggettività è sacrosanta, però così un discorso generale si fa sempre più complesso.

C’è un elemento in particolare che secondo Viviana Bruno depone in favore della verosimiglianza del sesso nel La Vita di Adele: le due protagoniste non ricorrono a vibratori e attrezzi vari. È un particolare su cui si sofferma anche Eleonora Dall’Ovo conduttrice su Radio Popolare di L’Altro Martedì, che inoltre concorda con Bruno quando considera l’importanza di un film come questo all’interno della cultura popolare: perché se è vero che il porno può influenzarci, questo vale anche per il cinema d’autore, soprattutto quando raggiunge un pubblico ampio e dice agli spettatori che certe realtà sono assolutamente normali. Anzi, di più: li spinge a parteggiare per una storia d’amore e a rispettare i sentimenti che questa comporta (era successa una cosa simile con I segreti di Brokeback Mountain).

Questo lungo ragionamento potrebbe anche finire qui, ma tra una chiacchiera a l’altra sono emerse ulteriori cose interessanti e che ci portano a Don Jon, l’altro film che nel giro di poche settimane ha affrontato, tra le altre cose, l’idea di sesso che ci portiamo dietro. Questa volta il punto di vista è quello di un uomo eterosessuale, ma il contesto del discorso è simile a quello affrontato sinora: la pornografia su Internet, dice la pellicola, determina cosa ci aspettiamo da un rapporto sessuale. Nel caso specifico, evoluzioni ginniche e porcelle, sino a trasformare la partner in un oggetto al servizio delle nostre fantasie.

Scrive Michael Kimmel in Guyland: «nella fantasia pornografica la sessualità delle donne non appartiene a loro ed è piuttosto una proiezione della sessualità maschile. Nel paradiso erotico della pornografia, sia le donne sia gli uomini agiscono, dal punto di vista sessuale, come uomini: sempre pronte a fare sesso, sempre vogliose, sempre impegnate in rapporti che contemplano penetrazione e orgasmi istantanei. Il climax è sempre e solo l’orgasmo maschile; quello femminile è dato per assodato e sotto certi aspetti è irrilevante».

In Handbook of the new sexuality si legge: «la telecamera può non essere capace di catturare l’orgasmo femminile, che secondo quanto scritto da Williams (1989) era l’obiettivo sommo dei pornografi negli anni Settanta e Ottanta. Ma la pornografia moderna ha scoperto che la telecamera può fare altro: può testimoniare l’impatto del fallo sul corpo della donna, in special modo nella forma della dilatazione del suo ano. […] il sogno di documentare il piacere femminile è stato abbandonato in favore della più brutale oggettivazione».

In che misura, dunque, questo immaginario influenza la sessualità maschile, soprattutto fra i giovani? Sveva Magaraggia conferma l’importanza del lavoro di Kimmel dal punto di vista sociologico, mentre, entrando nell’universo della psichiatria, Daniela Fois nota: «per quello che io vedo lavorando con gli adolescenti, è un po’ come se avessero già molto precocemente elaborato schemi rispetto alla loro idea di sesso. C’è una tendenza, per mia esperienza e parlando genericamente, a privilegiare sempre di più aspetti, almeno da punto di vista esplicito, molto superficiali e molto legati all’utilizzo, come se le relazioni umane fossero veramente vissute in maniera molto utilitaristica. Anche il caso di cronaca delle ragazzine romane che si prostituivano: quello è un esempio estremo, ma poggia su qualcosa, su un humus culturale».

Ultima domanda: in Don Jon, il protagonista è scontento e trova pace solo quando incontra l’amore. Ma non è che rischiamo invece di essere gratificati dalla semplice aderenza al modello dominante? Risponde Daniela Fois: «no. In ultima analisi i bisogni umani, almeno per ciò che abbiamo capito fino adesso, sono sempre quelli e non è che possiamo cambiarli a piacimento. Il bisogno di sentirsi visti, riconosciuti, di avere un’intimità, uno scambio emotivo, resta un bisogno fondamentale. La sessualità non è solo questo, ma gioca un ruolo rilevante. Io credo che il fatto di staccarsi completamente da questi bisogni non faccia star bene. Non è uno star bene reale, questa è la mia idea. È che magari uno il malessere non lo avverte, è come se un po’ si drogasse, per cui finché va avanti, finché la ruota gira non se ne accorge. Ma di fatto non funzioniamo come un telefono cellulare: non possiamo sostituire la sim e dire “ok, ho cambiato numero”».

(Oltre alle donne citate in questo pezzo, voglio ringraziare anche due uomini: Lorenzo Longhitano, che ha nutrito il dubbio da cui tutto è partito, e Fabio Deotto che ha facilitato il contatto con Viviana Bruno. Quanto di buono c’è in queste righe lo devo a tutte e tutti loro.)

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 24/12/2013)