Guardando alle opere di Hayao Miyazaki ho una personalissima classifica che fotografa la mia incapacità di pescare dal mazzo un podio composto da soli tre film. Il mio, di podio, vede Principessa Mononoke al primo posto, Kiki al terzo e tutte le altre pellicole al secondo. Lo ammetto: sono un fan sfegato e dunque non posso che gioire di fronte al ritorno nelle sale di La città incantata, il 25, 26 e 27 giugno – tra l’altro, questa pellicola sono tentato di farla stare accanto a Mononoke, al primo posto.
Entusiasmo a parte, l’occasione è propizia per scambiare quattro chiacchiere con Gualtiero Cannarsi, che è adattatore e direttore del doppiaggio per i film dello Studio Ghibli e dunque è la persona indicata per sviscerare le ragioni linguistiche dietro il nuovo adattamento della Città incantata (e anche della Principessa Mononoke tornato al cinema all’inizio di maggio).
Si parte intanto da una premessa: «La nuova versione, operata da un traduttore madrelingua con cui io sempre collaboro, e il nuovo adattamento da me operato sulla base di quella traduzione, sono strettamente basate sul testo originale giapponese». Si tratta di un chiarimento fondamentale, perché i precedenti copioni italiani di Mononoke e della Città incantata erano piuttosto liberi.
Prendiamo il caso di Mononoke: «L’adattamento stravolgeva e inventava un 75% delle battute del film». Anche La città incantata è stata alterata «in un 70% nella vecchia versione italiana», ma in questo caso gli spettatori del nuovo adattamento ritroveranno più o meno la pellicola che conoscevano: «Perché il significato delle scene tutto sommato non emana dal testo, che non è così funzionale alla comprensione del film come invece era nella Principessa Mononoke, nel senso che il precedente adattamento ne ha cambiato il senso, non si capivano certe cose, non si capivano i moventi e i motivi di vari personaggi».
Ad esempio, se nel finale di Mononoke «il bonzo Jiko dice “Ah, mi arrendo, mi arrendo non si può vincere contro gli stupidi”, nella precedente versione il bonzo Jiko diceva “Questa volta la natura ha vinto”: che è tutto diverso nella forma, nel contenuto, nel suo significato ultimo. Al contrario La città incantata, anche con il 70% del testo alterato, diventa un po’ più favoleggiato, più carino, buonista, un po’ più disneyano per dirla facile, però resta lo stesso film».
Uno dei motivi di questa differenza è che «la Principessa Mononoke e La città incantata sono in qualche modo i due film più diversi che Miyazaki Hayao abbia mai realizzato. Mononoke è il più colto, volendo utilizzare questa parola abusata, è il più impegnato, il più serio, anche il più greve, da un certo punto di vista. E il più pesante, pure per l’autore: non a caso Miyazaki Hayao dopo quel film disse che voleva ritirarsi perché aveva finito di dire quel che aveva da dire. Al contrario, La città incantata nasce in maniera più leggiadra, estemporanea, è un film dedicato alle bambine di dieci anni nel senso che è pensato per loro: il testo è molto semplice ed è semplice l’uso che se ne fa».
Considerare il testo originale come imprescindibile significa, fra le altre cose, prestare attenzione alle «ricorrenze della medesima parola», in modo da tradurla sempre nello stesso modo e tenere conto delle eventuali variazioni. È importante che la ricchezza e la precisione terminologica del testo originale non vadano perdute. Quest’ultimo tema spalanca le porte alla questione della resa della lingua parlata e dunque all’utilizzo di espressioni che possono suonare strane all’orecchio di chi non le utilizza nei discorsi di tutti i giorni. Come regolarsi in fase di traduzione e adattamento? «Quello che ho notato in una ventina d’anni di operato professionale è che ciascuna persona, inconsciamente, tende a estendere la propria personalissima idea dell’italiano parlato a tutta la nazione. Relazionandomi con il pubblico ho notato che anche a livello di cose molto semplici, ciò che era alieno a qualcuno era assolutamente naturale a qualcun altro. Penso di conseguenza che una traduzione che voglia essere corretta debba rifarsi all’indagine dei dizionari maggiori accreditati. Ovvero: se un dizionario riporta un termine come arcaico, o letterario o antico, allora devo assumere che non è un termine corrente. Altrimenti devo assumere che è corrente. In questo senso io cerco di essere obiettivo: se così non fosse sporcherei la mia opera di adattamento con la soggettività del singolo che sono io e questo non lo considererei onestamente lecito».
[Questo pezzo è stato originariamente pubblicato su linkiesta.it, il 25 giugno 2014.]