Il problema di Baz Luhrmann è che il suo Grande Gatsby è fedele al romanzo nei confronti delle cose sbagliate e tradisce quelle che invece avrebbe dovuto rispettare. Libro alla mano, lo sviluppo della trama è sostanzialmente mantenuto, con tanto di frasi riprese alla lettera: ad esempio l’incipit (“Nel periodo più vulnerabile della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non ho mai dimenticato”) e la celebre chiusura: “così andiamo avanti, barche contro corrente continuamente sospinte nel passato”. Questa però è la superficie. La sostanza è che Luhrmann racconta una storia che Francis Scott Fitzgerald non ha scritto, quella di un amore maledetto dal destino.
È una questione centrale, perché un adattamento cinematografico può permettersi molte libertà nei confronti della sua fonte letteraria, ma non può stravolgerne il nucleo più profondo. Il Riccardo III di Richard Loncraine resta il Riccardo III di William Shakespeare nonostante sia ambientato in una distopia fascistoide dell’Inghilterra anni Trenta, mentre Brokeback Mountain non tradisce il racconto di Annie Proulx nonostante le aggiunte narrative apportate. Ma ha poco senso acquistare i diritti di un libro per poi scrivere una storia intimamente diversa. E qui casca l’asino, perché, appunto, Il grande Gatsby di Luhrmann non è affatto quello di Fitzgerald.
Per raccontare un amore maledetto dal destino, Luhrmann trasforma Gatsby e Daisy in Romeo e Giulietta, enfatizzando cioè la loro purezza, la forza del loro amore e di conseguenza il loro statuto romantico e tragico. Un dettaglio è particolarmente significativo (mai sottovalutare i dettagli, sono quelli che fanno un grande film, o un grande romanzo): Gatsby sta mostrando la sua villa faraonica all’amata; giunti in camera da letto, estrae dagli armadi pile di camicie di ogni foggia e le getta ai piedi di lei, formando, scrive Fitzgerald, “un soffice mucchio splendente. […]. A un tratto, con un grido trattenuto, Daisy lasciò scivolare la testa sulle camicie e prese a piangere a dirotto. «Che belle camicie», gemette, con la voce smorzata dalla stoffa. «Piango perché non ho mai visto camicie così… così belle»”. Qual è la ragione delle lacrime? Turbamento per l’amore ritrovato, per la scintillante opulenza o entrambe le cose? Leggendo le pagine che precedono questo momento, la prima ipotesi appare improbabile, ma non facile da escludere completamente: Fitzgerald consegna infatti al lettore personaggi ambivalenti.
Lurhmann mette in scena quelle stesse lacrime dopo essersi appiattito sull’idea dell’amore ritrovato, con la voce narrante di Nick pronta a rafforzare questa lettura. Così, in un adattamento che riporta fedelmente intere frasi del romanzo, talvolta facendole comparire persino in sovrimpressione, spiccano un paio di assenze: due pagine dopo la scena delle camicie, Fitzgerald nota che il tanto atteso incontro con Daisy aveva in parte deluso le aspettative di Gatsby, perché lui non inseguiva il ricordo di lei, bensì un’illusione nutrita con “passione creatrice” e che “di certo oltrepassava la figura di Daisy, oltrepassava qualunque cosa”. Perché il Gatsby di Fitzgerald non è solo un uomo che in passato ha saputo amare, ma anche un megalomane arrampicatore sociale. E lei non è affatto una Giulietta, pura e resa infelice dal burbero marito: “Tom e Daisy erano persone poco sensibili: distruggevano cose e persone per poi rinchiudersi nel loro denaro o nella loro vasta noncuranza o in ogni caso in quello che li teneva uniti; lasciavano agli altri il compito di sistemare il disordine che avevano creato”. Per loro, insomma, l’importante è continuare a bere e danzare e partecipare a “incontri gioiosi tra donne che non si conoscevano nemmeno di nome”.
Anche la figura di Tom Buchanan, marito di Daisy, resta intrappolata nello schema dell’amore maledetto dal destino. Fitzgerald non è tenero con lui e spesso lo guarda con malcelato fastidio, ma non calca la mano facendone una macchietta. Per esempio scrive che “c’era della tenerezza” nella sua voce quando si trova a contrastare la tesi di Gatsby (Daisy non ti ha mai amato) rievocando i momenti belli della loro vita insieme.
L’adattamento cinematografico lo porta invece sui medesimi terreni già battuti dal perfido duca di Moulin Rouge! (ottimo film di Baz Luhrmann, realizzato subito dopo lo stupefacente Romeo + Giulietta).
Su grande schermo, Tom diventa quello da guardare con scherno e che merita il disprezzo dello spettatore quando piazza sulla strada di Gatsby colui che di lì a poco diventerà il suo assassino. Nel romanzo questo momento non c’è: bisogna leggere tra le righe, con attenzione, per indovinare che potrebbe essere stato Tom a imbeccare l’omicida. È cosa ben diversa da ciò che mette in scena Luhrmann: un volto sudaticcio che, parlando subdolamente all’orecchio di un uomo sconvolto dal dolore, trama per trasformarlo in un assassino e liberarsi così del rivale in amore.
Nel Grande Gatsby di Baz Luhrmann mancano l’ambivalenza dei personaggi di Fitzgerald e il suo giudizio profondamente critico nei confronti del Sogno Americano. Scegliere un romanzo come questo per raccontare party spumeggianti e amori segnati da un tragico destino è come adattare Brokeback Mountain perché ti piacciono i pascoli d’alta quota.
- Esito del trapianto: rigetto
- Complicazioni: appiattimento della complessità dei personaggi e insufficiente attenzione per la critica sociale
- Possibilità di recupero: scarse
- Chirurgo consigliato: Paul Thomas Anderson
(Questo pezzo è stato pubblicato sulla rivista Cadillac)