Logan, un supereroe esistenzialista a caccia d’affetto

La saga cinematografica degli X-Men nasce come modello di business più che da un’esigenza narrativa: a metà degli anni Novanta le grandi case di produzione statunitensi iniziano a puntare con decisione su quella che di lì a poco sarebbe diventata la gallina dalle uova d’oro, cioè i film ispirati ai supereroi dei fumetti. 20th Century Fox ne approfitta per accaparrarsi i diritti cinematografici dei mutanti della Marvel e nel Duemila comincia una saga altalenante dal punto di vista qualitativo, ma ampiamente remunerativa sotto il profilo economico.

I primi nove film della serie (Logan è il decimo) costano complessivamente poco più di 1,2 miliardi di dollari e incassano in sala 4,38 miliardi. Insieme al successo commerciale si manifestano però alcuni problemi: sin dal terzo capitolo della serie, X-Men – Conflitto finale (2006), una parte del pubblico e della critica comincia a digerire male alcune cose.

Intanto la rappresentazione ripulita della violenza, figlia della volontà di evitare il divieto di visione per i minorenni: si combatte, ma senza sangue e senza particolare sofferenza. Inoltre, i protagonisti principali si ritrovano presto ingabbiati all’interno di un tipo psicologico che offre ridottissimi margini di cambiamento, con il rischio che le trame dei film ripetano all’infinito cose già viste, accontentandosi di variazioni piccole e spesso superficiali.

Il personaggio di Wolverine è l’esempio principe di questi problemi, che si fanno ancora più evidenti nei primi due film dedicati al suo passato: X-Men le origini – Wolverine (2009) e Wolverine – L’immortale (2013). Poi arriva il 20 ottobre del 2016, giorno del debutto del primo trailer di Logan: troviamo un Wolverine vecchio e dolorante, in un futuro nel quale i mutanti sono quasi tutti scomparsi e dove è facile sentirsi soli e inutili. A corredo delle immagini, le note della canzone Hurt dei Nine Inch Nails, nella cover cantata da Johnny Cash.

Un testo che inizia con queste parole: «Mi sono ferito da solo, oggi, per vedere se sento ancora qualcosa. Mi concentro sul dolore, l’unica cosa reale». I fan vanno in visibilio: all’orizzonte intravedono finalmente qualcosa di nuovo. Intervistato proprio sul trailer dal magazine britannico Empire, il regista James Mangold commenta: «Anche quando un film è leggermente diverso dai precedenti di una saga, i produttori cercano di venderlo sottolineando gli elementi di continuità piuttosto che quelli di rottura. La musica di Cash ci ha invece consentito di marcare una differenza netta».

Ispirandosi molto liberamente al fumetto Vecchio Logan, James Mangold racconta un Wolverine anziano, il cui potere di rigenerare le ferite si è affievolito e che lavora come autista di limousine al solo scopo di procurarsi le medicine per il vecchio Charles Xavier, il quale, a causa degli anni che passano, sta perdendo il controllo dei propri poteri. Niente minacce globali e battaglie per salvare il pianeta, dunque: ciò a cui assistiamo è un tirare a campare, reso più difficile da un senso di solitudine e inutilità annebbiato solo in parte dall’alcol.

L’ingresso in scena di una giovane mutante bisognosa d’aiuto fa decollare la trama, ma senza tradire le premesse esistenziali del film. Una prima conseguenza è il realismo della violenza, con tutto il sangue e gli squartamenti che molti fan avevano, invano, sempre desiderato. L’aspetto più corposo, però, è un altro e diventa chiaro quando si scopre che la giovane mutante possiede un paio di fumetti sugli X-Men nei quali Wolverine e Xavier sono eletti a miti: il tutto all’interno di un contesto narrativo certamente un po’ naïve, ma rassicurante, nel quale agiscono i buoni ed esistono luoghi dove sentirsi a casa, protetti.

La realtà è diversa dal mito, dice Logan, ma proprio la vecchiaia e la prospettiva della morte consentono a Wolverine di focalizzarsi su ciò che vuole essere, sull’eredità che vuole lasciare. Che non è tirare a campare e nemmeno salvare il mondo, bensì prendersi cura di una singola persona. Come dice Mangold, «questo è un film sulla famiglia, sul creare connessioni in un mondo nel quale i nostri personaggi possono sentirsi molto soli». Ci voleva la terza età, insomma, per tornare al cuore pulsante degli X-Men: la necessità e il diritto di fare comunità.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 4 marzo 2017.]