Il senso della neve di un uomo spezzato

Un grande film è spesso un film di grandi dettagli. Ce n’è uno, in Manchester by the Sea, che colpisce nel segno con forza e precisione: vediamo un uomo che spala la neve davanti all’ingresso di un’abitazione. L’impressione è che stia liberando la via d’accesso alla porta di casa sua. Qualche tempo dopo assistiamo alla medesima scena, ma ora abbiamo alcuni elementi in più per codificarla nel modo corretto: l’uomo in realtà sta livellando la neve di fronte a una finestra che si trova rasoterra e che consente alla luce di filtrare all’interno della stanza nella quale vive.

Non abita in una casa, dunque, bensì in una stanza sottoterra: è un dettaglio fondamentale e tra un attimo vedremo perché. L’uomo in questione si chiama Lee Chandler (interpretato da Casey Affleck) e lavora come tuttofare nella cittadina di Quincy, in Massachusetts. Svolge il proprio lavoro in modo solerte e competente, ma rifugge qualunque contatto emotivo con le persone che lo circondano.

Qualcosa nel suo passato l’ha spezzato in modo irrimediabile e dunque eccolo condurre un’esistenza volutamente isolata, fatta di routine lavorativa e occasionali risse figlie di una rabbia inespressa. La morte del fratello maggiore lo costringe a tornare al paese natale (la Manchester-by-the-Sea del titolo), cioè quel luogo dove è avvenuto l’evento drammatico che ha cambiato per sempre la sua vita e dove vorrebbe restare il minor tempo possibile. Lee Chandler scopre però di essere stato nominato tutore del nipote, e questo complica le cose.

Ecco allora che il dettaglio della neve spalata assume una valenza simbolica: questa è la storia di un uomo morto dentro, che vive seppellito, anche se non si è completamente arreso e anzi continua a fare in modo che la luce penetri nella sua “tomba”. Per il resto del film, Lee Chandler proverà a fare del suo meglio. Proverà, metaforicamente parlando, ad aumentare la quantità di luce, dovendo però fare i conti con il fatto che riesce a permettersi giusto una finestrella rasoterra.

Quanta strada riuscirà a percorrere e come riuscirà a farlo, lo lascio scoprire agli spettatori: ciò che mi interessa sottolineare è che il dettaglio della neve spalata è la spia dell’ottimo lavoro svolto dal newyorkese Kenneth Lonergan, classe 1962, drammaturgo e qui al suo terzo lungometraggio come regista e sceneggiatore, dopo Conta su di me (2000) e Margaret (2011). A pensarci, ci vuole poco perché la storia della finestrella rasoterra possa diventare stucchevole e didascalica. E, a conti fatti, tutto Manchester by the Sea è un continuo camminare sul filo del rasoio, perché le storie che si intrecciano sono molte, le tensioni emotive e drammatiche sono spesso gigantesche.

Quasi non c’è sequenza che non corra il rischio di strabordare; eppure tutto regge e lo fa con una grazia sorprendente. Va da sé che il merito di questo miracoloso equilibrio è da spartire con Casey Affleck, capace di interpretare il suo personaggio rimanendo lontanissimo da qualunque cliché e dando chiaramente a intendere che, poco sotto la superficie di un uomo isolatosi volontariamente, si agitano emozioni e tensioni soverchianti.

Il suo Lee Chandler non ha lo sguardo spento, soluzione spesso adottata dagli attori chiamati a interpretare questo tipo di personaggio: i suoi occhi saettano continuamente, valutano la situazione, si comportano come gli occhi di un abile uomo d’azione. Cosa che in fondo Chandler è, con la differenza che il suo campo d’azione è drammaticamente limitato. E così torniamo alla finestra rasoterra, in un gioco di corrispondenze che contribuisce non poco a tenere insieme un film così strapieno e, appunto, costantemente a rischio tracimazione.

Manchester by the Sea colpisce nel segno anche perché sembra spesso sul punto di esplodere: è come se di fronte all’immensa mole emotiva messa in campo, noi spettatori non avessimo altra scelta se non quella di accettare di buon grado che la trama possa evolvere in modo diverso da come vorremmo. Spesso al cinema ci viene raccontato che non esistono traumi davvero insuperabili e, chissà, magari ci siamo abituati a quest’idea. La storia di Lee Chandler ci ricorda invece che il concetto di lieto fine è inscindibilmente legato alle condizioni di partenza.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 18 febbraio 2017.]