Una lattina sul lago

Per capire La mia vita da zucchina è utile partire da un esercizio di scrittura creativa che funziona così: ci viene chiesto di scrivere una scena romantica fra una coppia affiatata. Poi, senza nemmeno leggere il nostro primo elaborato, ci viene chiesto di riscriverlo, questa volta togliendo le candele, la musica, il tramonto. Poi di riscriverlo ancora, continuando ad asciugare i dettagli. Lo scopo non è di mettere alla prova le nostre reazioni nei confronti delle revisioni, né di capire se sappiamo difendere le nostre scelte, sebbene entrambe le cose abbiano una loro importanza. Non ha nemmeno l’obiettivo di farci rifuggire acriticamente dalle soluzioni più scontate, perché talvolta possono rivelarsi adatte alla nostra storia e ai nostri personaggi. La vera sfida di questo esercizio è imparare a dare un senso agli oggetti che utilizziamo, per cui ad esempio potrebbe benissimo andare bene una candela, purché abbia un significato profondo per i protagonisti della scena. Il film La mia vita da zucchina ha due enormi pregi: utilizza in modo magistrale gli oggetti e trova il giusto garbo per raccontare la sua storia.

Tutto nasce dal romanzo omonimo del francese Gilles Paris, pubblicato nel 2002 dall’editore Plon e in Italia da Piemme, a partire dal 2006. È la storia di un bambino di nove anni: si chiama Icaro, ma preferisce il soprannome datogli dalla mamma, cioè Zucchina. Lo incontriamo mentre è un po’ sperduto e fatica a comprendere cosa sta accadendo in casa: il padre se n’è andato, la madre beve per dimenticare, lui aspetta non sa bene cosa. Poi la tragedia ed eccolo trasportato in orfanotrofio: ancora più spaesato, all’inizio, ma pronto a scoprire un’altra vita possibile, fatta di amicizia e di affetto.

Il romanzo di Gilles Paris colpisce al cuore Claude Barras e Céline Sciamma: lui è svizzero classe 1973, ha diretto alcuni cortometraggi d’animazione ed è in cerca di una storia che gli consenta un maggiore respiro narrativo; lei è francese classe 1980 e s’è guadagnata sul campo la stima dell’ambiente scrivendo e dirigendo Tomboy (2011) e Diamante nero (2014). Insieme portano su grande schermo la storia di Zucchina, Sciamma occupandosi della sceneggiatura, Barras di regia.

Un primo aspetto che colpisce, del loro film, è la misura con cui raccontano una vicenda che facilmente poteva condurli verso l’eccesso, magari convincendoli ad adottare toni più furbescamente drammatici oppure da denuncia sociale con il ditino alzato, quella di chi si erge a giudice di tutto e di tutti. È un senso della misura che diventa essenziale se consideriamo gli elementi più drammatici della vicenda, perché stiamo pur sempre parlando di una storia con madri che muoiono e con l’incubo di non avere mai più nella propria vita qualcuno da poter considerare famiglia. Il garbo con cui Barras e Siamma gestiscono La mia vita da zucchina è invece un monumento alla misura e all’empatia umana più sincera.

Poi c’è la questione degli oggetti e dell’esercizio di scrittura creativa con il quale sono partito: ci ritorno solo ora, perché per meglio argomentare devo fare uno spoiler, dunque chi non vuole anticipazioni smetta di leggere qui.

Quando Zucchina arriva in orfanotrofio, porta con sé un oggetto che gli ricorda la madre: si tratta di una lattina vuota di birra, una delle tante trangugiate da mamma, una delle tante con le quali il bimbo giocava per ingannare il tempo e tenersi compagnia. Quando Zucchina si innamora della piccola Camille, prende la lattina, la apre e costruisce una barchetta da donarle: siccome sono in montagna, d’inverno, Camille deve rompere il ghiaccio di un laghetto per farla navigare. Dietro un oggetto e alla sua trasformazione si nasconde tutto un mondo, emotivo e di significato: è un momento di grande cinema, un dettaglio che nel romanzo manca ed è stato inserito proprio da Sciamma e Barras, una soluzione narrativa cercata con attenzione e utilizzata con il giusto garbo, senza sottolineature di troppo. Basta questo momento per convincersi del valore di La mia vita da zucchina: il bello è che non è l’unico.

[Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di Pagina 99 in edicola il 3 dicembre 2016.]