Lone Survivor, come (non) ti racconto la guerra

Non servono calzamaglia e colori sgargianti per qualificare i Navy SEALs come supereroi. Parola di Lone Surviror, scritto e diretto da quello stesso Peter Berg che nel 2012 sconfisse gli alieni insieme a un manipolo di vecchi marinai (Battleship). Il suo nuovo sforzo bellico si lascia anche vedere, ma è tutto retorica e niente guerra.

Non è obbligatorio raccontare i traumi dei soldati (Rambo, Nella valle di Elah) né indagare l’animo umano (Platoon, Apocalypse Now). Si può benissimo consegnare allo spettatore un’adrenalinica scampagnata a caccia di talebani brutti e cattivi, come fa Lone Survivor. Ma se la metti su questo piano, allora è meglio evitare un prologo e un epilogo fatti apposta per dare una cornice seria all’intera vicenda, con tanto di morale sul sacrificio e la morte. È un po’ come se Pradator avesse aggiunto qualche minuto di pellicola per farci ascoltare un bel pippotto sull’amicizia e il valore e i pericoli che corri quando non vedi gli alieni.

Che poi, il problema non è solo nella cornice. Partiamo dalla storia vera che ha ispirato Peter Berg: il 27 giugno 2005 le forse speciali statunitensi danno il via all’operazione Red Wings. L’obiettivo è assestare un duro colpo ai ribelli islamici che si trovano sulle montagne della provincia di Konar, in Afghanistan. La prima cosa da fare è verificare che ci siano, in particolare il loro capo, e così quatto Navy SEALs vengono mandati sul posto. Da qui in avanti va tutto storto, perché le comunicazioni satellitari fanno cilecca e i talebani, effettivamente presenti, scoprono gli statunitensi e li accolgono a suon di proiettili.

Quanti erano i talebani? Le fonti ufficiali divergono. La stima più bassa parla di 8-10 combattenti, la più alta di 70-100. Peter Berg non dichiara un numero preciso, ma siamo chiaramente più vicini alle seconda ipotesi e questo determina l’impatto della pellicola. Non è una questione di aderenza alla realtà, che è pure controversa. È che otto nemici avrebbero portato il film da tutt’altra parte, più vicino a un thriller, a una partita di scacchi. Mettere in campo almeno 80 talebani lo trasforma in un action movie con supereroi.

Come se non bastasse la sproporzione numerica, Peter Berg aggiunge anche dei ruzzoloni che avrebbero ucciso chiunque. L’uso del sonoro, in particolare, trasforma in un’autentica agonia i secondi trascorsi dai SEALs a rotolare lungo pendii rocciosi. Stando a quel che vedi e senti, nessuno di loro dovrebbe rialzarsi, una volta frenata la corsa. Invece si alzano, e sparano e per fermarli ci vuole sempre più di un proiettile in corpo. Supereroi, appunto, e di conseguenza inverosimili. Manca la guerra, quella vera, quella che magari esci vivo da una situazione disperata, però non grazie ai superpoteri. Ecco perché stona la presenza della cornice moraleggiante: serve per venderti il film come qualcosa che non è.

Ora proviamo a mettere fra parentesi questo aspetto per concentrarci sulla regia, perché è forse l’aspetto più valido di Lone Survivor (niente di che, ma già meglio della sceneggiatura). Peter Berg deve aver saccheggiato alcuni classici del war movie perché riprende quasi tutti i cliché del caso, dai primi piani sui nostri eroi fino alla macchina a mano nervosa e agli stacchi di montaggio frenetici. È merito di questi escamotage se due ore di film scorrono senza addormentare.

Se però Peter Berg avesse studiato a fondo il lavoro di Kathryn Bigelow, avremmo assistito a uno spettacolo migliore. The Hurt Locker (2008) riesce a creare una tensione incredibile quasi solo facendo camminare il suo protagonista: tutta la fase che precede lo scontro a fuoco di Lone Survivor avrebbe avuto ben altro piglio, con un taglio registico simile. Inoltre, quando i proiettili cominciano a fischiare, Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012) dimostra che è possibile evitare di adagiarsi su un immaginario bellico già visto e rivisto per regalare agli spettatori qualcosa di meno scontato. Per quanto Peter Berg si adagi con un buon senso artigianale, la sua è pur sempre una fotocopia.

Alla fine di tutti questi ragionamenti, voglio citare una frase di Mark Wahlberg, protagonista del film: «Ciò che più mi ha colpito è stato l’atto di eroismo di Gulab e degli abitanti del suo villaggio. L’ho trovata una cosa ammirevole e mi ha dato molta speranza per il mondo». Non spiego, per evitare spoiler, ma questa è la storia che valeva la pena di raccontare.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 19/02/2014)