Allacciate le cinture, rivoluzione amorosa per Ozpetek

Anche gli eterosessuali amano. E se di per sé questa non è una grande novità, rappresenta una (piccola?) rivoluzione una volta inserita all’interno dell’opera di Ferzan Ozpetek.

Per lungo tempo il suo cinema ha proposto una dicotomia insanabile: da un lato il mondo degli eterosessuali, immancabilmente infelici, ipocriti, quasi per nulla empatici, grigi dentro; dall’altro l’universo LGBT, con i suoi colori, i sorrisi, la capacità di superare ostacoli e tristezze grazie a solidarietà e voglia di vivere. All’interno di questa gabbia ideologica, l’amore vero era un privilegio dei ‘diversi’, gli unici capaci di viverlo e di meritarselo.

Poi è arrivato Mine vaganti (2010), in cui l’urgenza di rivendicare la propria identità sessuale viene messa in secondo piano, perché fare coming out con genitori e parenti può rappresentare un atto di violenza nei loro confronti e, in alcune circostanze, può essere evitato. L’amore vero, quello che non appassisce nella routine e nel conformismo, sembra ancora essere appannaggio dei soli personaggi gay, ma siamo comunque di fronte a un sensibile cambiamento rispetto allo schema ideologico di molti film precedenti, perché viene meno la contrapposizione netta fra i due mondi, quella che giustifica l’affermazione di sé come l’unica cosa giusta e come elemento necessariamente contro.

Ed ecco uscire nelle sale Allacciate le cinture, dove l’amore riguarda una coppia eterosessuale. Di più: coinvolge il classico maschio rozzo, omofobo, maschilista, razzista, uno che ce le ha proprio tutte e sarebbe il bersaglio perfetto di critiche sacrosante, ma anche un po’ facili (dai, è uno che sgasa con la moto per scaricare la tensione sessuale: prendersela con lui è come rubare caramelle a un bambino). Resta però il fatto che proprio lui rappresenta l’altra metà di una storia d’amore vera, sana, appassionata. Esito tutt’altro che scontato, considerati i precedenti di Ozpetek.

Tutto questo non rende Allacciate le cinture un gran film, perché qua e là tornano personaggi ‘ideologici’ e quindi l’amico gay è per forza tenero e sensibile e colei che si discosta dalla norma (la ‘zia’ di casa) è necessariamente solare e piena di vita. Soprattutto, però, la storia fatica a prendere quota, a coinvolgere dal punto di vista emotivo. E questo nonostante le vicende raccontate siano forti.

La cartina di tornasole sono quelli che chiamerei momenti videoclip, in cui parte una musica a tutto volume e la cinepresa si sposta fluida intorno ai personaggi. Sono scene che si affidano alla capacità evocativa di una canzone, come se immagini e narrazione non ce la facessero, da sole, a colpire. E forse non ce la fanno perché i protagonisti non hanno una routine di gesti quotidiani, qualcosa su cui lavorare per sottolineare lo scarto fra il prima e il dopo una brutta notizia.

Faccio un esempio, per chiarire cosa intendo: quali sono le piccole azioni che identificano la quotidianità del personaggio di Kasia Smutniak (Elena)? Non ne ricordo. Fosse stata una a cui piace comporre vasi di fiori, o asciugare bicchieri, avremmo potuto vederla, dopo aver ricevuto una brutta notizia, mentre tenta di recuperare questo suo spazio rassicurante e conosciuto per scoprire che non basta più, o che deve essere riorganizzato – che so, magari grazie al suo uomo che si unisce a lei, così che ciò che prima era uno luogo privato diventa condiviso.

Invece, in Allacciate le cinture lei si siede e guarda nel vuoto e alla fine piange, ma noi assistiamo a una reazione credibile per qualunque personaggio, non propria di Elena e solo sua. L’intensità della scena non scaturisce dunque dalla conoscenza e dall’empatia con lei, ma dal fatto che ciò che la colpisce è un’esperienza potenzialmente condivisibile in sé. Le due cose sono radicalmente diverse. È per questo che il momento videoclip diventa importante, in più occasioni e non solo con Elena. Però non avrebbe dovuto esserlo.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 06/03/2014)