Il grande match, un film da KO

Bisogna essere un po’ guasconi e un po’ oltraggiosi per mettere sullo stesso ring due icone del pugilato cinematografico come Jake LaMotta e Rocky Balboa, e cambia poco che in questo caso Robert De Niro e Sylvester Stallone interpretino personaggi dai nomi differenti. Con la giusta dose di sfacciataggine e di autoironia, Il grande match avrebbe potuto sfruttare questa premessa per imbastire una commedia dignitosa. Invece è un filmaccio di quelli che i 90 secondi del trailer condensano tutto il meglio: se entri in sala ti toccano altri 110 minuti di noia.

Forse il problema principale è che Il grande match vuole essere troppe cose: un film da ridere, una riflessione sulla vecchiaia, un’apologia degli operai che resistono nonostante la crisi economica e pure una storia d’amore. Quando finalmente arriva il momento di incrociare i guantoni, non sai più che cosa regista, sceneggiatori e attori vogliono raccontare. Soprattutto, è andato a farsi benedire il ritmo, una delle chiavi principali della risata.

Esempio: nel trailer c’è un momento in cui Stallone sta per assestare un gancio sinistro a un quarto di bue, un classico dell’allenamento di Rocky. Lo interrompe l’allenatore: «Cosa fai? Siamo qui per comprare la cena, non per prenderla a pugni». Ecco, questa battuta fa ridere nel trailer, mentre nel film è moscia. La differenza è che nel primo caso il montaggio è frizzante e tiene alto il ritmo comico, nel secondo caso c’è troppa carne al fuoco e pure di tagli diversi.

Finisce che il grosso delle risate rimane affidato al polverosissimo stereotipo del nero petulante. Troppo poco, a maggior ragione perché fanno cilecca i cliché, cioè quelli che in teoria sono fondamentali per la riuscita di una pellicola con chiare ambizioni metacinematografiche. Anzi, è sbagliata la presenza stessa del personaggio di colore, cialtrone e chiacchierone: c’entra nulla con la saga di Rocky o con Toro scatenato, e se porti sul ring il fantasma di quelle due icone della boxe, allora devi giocare a scardinare i loro, di modelli. Un po’ come fece a suo tempo lo straordinario Frankenstein Jr., che pescò a piene mani dalla tradizione horror e non si sognò di aprire parentesi sull’universo western. Per dire.

Certo, volendo essere magnanimi si potrebbe sostenere che il nero petulante è un cliché della commedia hollywoodiana anni Ottanta (vedi ad esempio i film con Eddie Murphy) e che siccome Rocky e LaMotta arrivano su grande schermo a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta… ma no, è una suggestione troppo generosa.

L’incapacità di gestire il genere comedy tocca il suo apice nel combattimento finale, quando regia e sceneggiatura mettono in scena un match serio, come fosse tra atleti giovani, dove vince chi incassa meglio. Inquadrature ravvicinate e tagli di montaggio costruiscono un racconto che si rifà chiaramente agli storici incontri di Rocky. Che però erano il momento clou di pellicole dal forte impatto drammatico. Il grande match, invece, si presenta come una commedia. Non fa ridere, ma questo non cambia automaticamente il genere d’appartenenza.

A conti fatti, meglio recuperare Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980) e i film che aprono e chiudono il ciclo di Rocky, quello del 1976 (Rocky) e quello del 2006 (Rocky Balboa).

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 07/01/2014)