Cosa manca a Bling Ring per essere un grande film

La sceneggiatrice e regista Sofia Coppola correva un rischio enorme di fronte alla storia vera dei giovani benestanti di Los Angeles che tra il 2008 e il 2009 si intrufolarono nelle abitazioni di alcune celebrità rubando vestiti, scarpe, gioielli: dietro ogni inquadratura o battuta di dialogo si nascondeva infatti il pericolo di un moralismo da quattro soldi, di un facile “ah, che disastro i giovani d’oggi!”.

Onore al merito: Bling Ring evita questo scivolone. Il problema è che tralascia alcuni elementi che avrebbero potuto farne un grande film. Non bisognava inventarsi chissà cosa: era già tutto nell’articolo che ha ispirato la Coppola, quello scritto per Vanity Fair da Nancy Jo Sales: The Suspects Wore Louboutins, pubblicato a marzo del 2010 – a cui vale la pena di aggiungere una recente intervista rilasciata dalla giornalista.

La più scema del reame
Dovendo decidere il loro primo colpo, Nick Prugo e Rachel Lee, nucleo originale della gang, si chiesero: chi è così stupido da facilitarti l’ingresso in casa, ad esempio tenendo le chiavi sotto lo zerbino, e da lasciare un sacco di soldi in bella vista? La risposta fu Paris Hilton. È un peccato che Sofia Coppola non abbia inserito questo dettaglio: non per sparare a zero sull’ereditiera (troppo facile), ma perché è interessante la dicotomia fra il modello di riferimento, per eleganza e stile di vita, e l’opinione che di quel modello si ha.

Rubare per amicizia
L’idea originale dei ladri era di portare via poche cose, in modo tale che la Hilton non se ne accorgesse e che fosse possibile ripetere l’esperienza. Per cinque volte si introdussero in casa senza che apparentemente lei prendesse provvedimenti. “C’è da chiedersi se fossero più interessati a rubare o a far finta di essere suoi amici, tanto da andare e venire da casa sua a loro piacimento”: l’osservazione di Nancy Jo Sales aggiunge un elemento di complessità al ritratto dei giovani ladri. Il film appiattisce la questione facendoli agire solo per procurarsi abiti firmati. Così, nel corso di una festa le ragazze si vantano con le coetanee di aver “rubato” in casa delle celebrità, non di “essere state” da loro.

Rubare con parsimonia
Cosa fece accantonare la regola della parsimonia? Perché a un certo punto il valore della refurtiva cominciò a salire, fino ai 2 milioni di dollari in gioielli sottratti a Paris Hilton in una sola notte? Le risposte non sono fondamentali, in un film, anche perché il facile moralismo è dietro l’angolo. Porsi le domande è ciò che conta davvero, ciò che contribuisce allo spessore di una storia. Bling Ring, che non parla dell’intento originale della gang (rubare poco), non racconta nemmeno la sua evoluzione: si passa stancamente da una casa all’altra, da un furto al successivo, in attesa che giunga il finale noto, cioè le registrazioni dei video di sorveglianza e l’arresto dei colpevoli.

Questi tre esempi consentono di tirare una conclusione. Poniamo che i due estremi fra i quali si barcamenava Sofia Coppola fossero un film assolutorio e uno dalla condanna facile. Uno degli elementi chiave per scongiurare questi esiti era trovare la giusta distanza rispetto ai personaggi raccontati: troppo lontano poteva farne delle macchiette, troppo vicino farne sposare acriticamente il punto di vista.

Niente macchiette, questo è certo, ma Bling Ring non va oltre la superficie modaiola, incosciente e delinquente dei suoi protagonisti. E così ci priva di uno sguardo profondo e coinvolto, quello che avrebbe potuto regalarci una pellicola complessa e stimolante, insieme sorpresa e sedotta dai misteri, anche quelli malati, dell’animo umano.

(Questo pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 29/09/2013)