Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno

Bane muore come l’ultimo degli stronzi ed è giusto così

Spoiler in quantità. Da qui in avanti.

C’è voluto il terzo e ultimo capitolo della trilogia per vedere un nemico capace di riempire di botte Batman, e bisogna riconoscere a Christopher Nolan e all’attore Tom Hardy di averlo rappresentato in modo terribilmente efficace: lo vedi in azione e ti convinci che affrontarlo è un gesto a metà strada tra l’eroismo e il suicidio e che in fondo ha ragione Catwoman quando dice all’Uomo Pipistrello che la città di Gotham non merita un simile sacrificio.
Non solo. Bane getta sul tavolo una seria questione etica, predicando la fine del turbo capitalismo finanziario e il ritorno del potere nelle mani del popolo. È roba tosta, un po’ come lo era il problema sollevato nel secondo film della serie.

Flashback: una delle sequenze chiave del Cavaliere Oscuro è quella in cui ci sono due traghetti fermi nelle acque di Gotham. Uno trasporta cittadini, l’altro delinquenti. Joker ha nascosto esplosivi su entrambi; il detonatore che fa esplodere quelli degli abitanti è in mano ai criminali e viceversa. Se uccidi gli altri eviti che loro uccidano te e Joker è convinto che il detonatore sarà messo presto in funzione, perché sostiene che il mondo sia corrotto, che le persone siano intimamente malvagie e di conseguenza che lui abbia ragione di esistere e di comportarsi come fa.
Per contro, Batman dice che c’è sempre una ragione di speranza per il mondo e la gente sa trovare dentro di sé la forza di scegliere il bene. L’esito della sequenza gli dà ragione, anche se Joker trionfa nei confronti dell’integerrimo procuratore Dent, condotto con successo verso il Lato Oscuro.

Il motore che muove Il Cavaliere Oscuro è insomma potente, capace di dare profondità e complessità alle vicende narrate. La stessa cosa sembra accadere con Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno e per oltre due ore ti chiedi cosa mai potrà rispondere Bruce Wayne al dilemma etico e rivoluzionario sollevato da Bane. A maggior ragione considerato che è parte in causa, essendo un miliardario ed avendo le aziende quotate in borsa.

Invece ecco il colpo di scena: tutto quello che ha raccontato Bane è solo una scusa come un’altra per nascondere la vera ragione delle sue azioni, cioè la vendetta. Nemmeno sua, tra l’altro. Così Wayne può accontentarsi di potenziare i muscoli, perché è inutile opporre un’idea a una frottola. E può evitare di sacrificare la sua vita, perché quelli che ha di fronte non sono degli idealisti fuori di testa ma dei criminali qualunque (fuori di testa), quindi tanto vale chiudere i conti e poi andare a Firenze e sorseggiare un amaro insieme alla sua bella.

Ed è forse per questa ragione che Bane muore come l’ultimo degli stronzi, senza nemmeno che la cinepresa gli conceda un minimo di attenzione: arriva Catwoman, gli spara una cannonata, lui viene sbattuto via e subito il montaggio stacca su lei e sulla sua battuta spiritosa. Cioè: colui che per oltre due ore è stato il motore della pellicola e che proponeva a Batman un dilemma etico al quale non stava rispondendo, prima si scopre che racconta balle poi muore con minore enfasi riservata al capo della polizia, personaggio secondario come pochi al quale comunque sono concessi due secondi carichi di compassione (c’è pure un accenno di ralenty).

Si potrebbe sostenere che è il modo scelto da Christopher Nolan per raccontare l’esito di un personaggio rivelatosi poco sostanzioso, ma volendo essere cattivi si potrebbe anche dire che è una caduta di tono, un prezzo alto pagato sull’altare di un’estetica che va per la maggiore in terra statunitense, quella secondo la quale l’azione è costruita in fase di montaggio e dunque sul set si realizzano inquadrature brevi, senza che sia necessario coreografarle più di tanto. Col rischio però di essere superficiali, in termini di peso emotivo di un’inquadratura, e di ritrovarsi al montaggio privi di quei due secondi che sarebbero stati utili per sottolineare un evento.

Il colpo di scena è il difetto centrale di un film ricco di dettagli molto belli ma privo di un disegno generale all’altezza delle aspettative sollevate a un “epico finale”, come ce l’ha venduto la campagna promozionale. Tanto potente era il motore che muoveva il secondo capitolo della serie, tanto fiacco si rivela quello del terzo. È un bel problema, considerato che Nolan ha voluto evitare come la peste quel tipo di intrattenimento che può permettersi temi esili e motivazioni abbozzate. E non vale limitarsi ad aggiornare il Terrore giacobino, con uno spaventapasseri calato dall’altro a dirci che i processi sommari sono l’unico esito possibile dell’antipatia per il turbo capitalismo: è una furbata che serve solo a non prendersi la briga di immaginare una controargomentazione convincente. Esattamente come il colpo di scena che porta Bane a morire come l’ultimo degli stronzi.

[Questo pezzo è stato pubblicato sulla rivista letteraria di INUTILE]